M5s, anticorruzione: i veri problemi dietro il rinvio a dicembre

La vicenda è ormai nota. Martedì la Camera approva con voto segreto un emendamento alla legge anticorruzione (quella che contiene – ancora, ma ci torneremo – le norme salva Casaleggio) che ammorbidisce i reati di abuso d’ufficio e peculato.

Ovviamente c’è un problema, significa che qualcuno, nella maggioranza, ha votato con l’opposizione. Aldo Giannuli, visto che l’estensore dell’emendamento è un ex M5s iscritto alla massoneria, ha ipotizzato un accordo trasversale tra confratelli.

Sia come sia, secondo i calcoli, i deputati di maggioranza che hanno votato l’emendamento contro la linea definita dal governo sono almeno 36. Statisticamente è molto difficile che, come accusa Di Maio, siano tutti della Lega. Ieri, nell’assemblea trasmessa in streaming, è apparso estremamente in difficoltà. Ma questa, ovviamente, è una mia impressione.

Come spiegavo ieri, nel Movimento è finita la stagione dei dissidenti che, pubblicamente, mettono in difficoltà la leadership: non conviene a nessuno. Meglio, come ha fatto Roberto Fico, incassare alti dividendi politici (copyright Nicola Biondo) con messaggi comprensibili solo a chi ha le giuste chiavi di lettura.

Quell’emendamento è un provvedimento secondario, che si può eventualmente correggere con altri passaggi parlamentari. Questo voto è un messaggio. Ai parlamentari del Movimento 5 Stelle non importa nulla di quello che si vota o meno, si può anche derogare ai princìpi per un reato come il peculato (l’appropriazione indebita di risorse dello Stato da parte di pubblici funzionari). Quello che importa è che tutti abbiano la propria ricompensa: in questi mesi, senatori e deputati provenienti dalla scorsa legislatura sono stati accontentati. Posti di governo e sottogoverno, presidenze di commissione, incarichi nel partito. Quelli di prima nomina, invece, sono ancora in lista d’attesa, e la pazienza sta finendo.

La preoccupazione è che la leadership di Luigi Di Maio non sia in grado di garantire nulla per il prossimo giro di giostra. Il sospetto è che, ormai, chi ha più “anzianità” si sia rassegnato al fatto che questa legislatura resterà un’esperienza isolata.

Se così dev’essere, allora durerà cinque anni, anche a costo di cambiare cavallo, leader, governo. C’è chi, nel Movimento, senza esporsi come “dissidente”, è comunque pronto a formare maggioranze alternative per tutelare la legislatura.

Rousseau legittimata per legge grazie alla #salvacasaleggio

La scorsa settimana ho scritto un articolo per spiegare come nella legge anticorruzione di Bonafede si nascondano delle norme salva Casaleggio. Il ministro Di Maio ha replicato con un video su Facebook con alcune bugie e nessuna spiegazione sugli aiuti all’Assocazione Rousseau e Davide Casaleggio previsti dal provvedimento. Il Movimento, però, ha pure rimandato di una settimana l’inizio della discussione in Aula.

Non tutto è chiaro tra i pentastellati: il motivo della reazione del ministro è la difficoltà crescente a spiegare il ruolo di Casaleggio e la sua legittimità di raccogliere e gestire in autonomia una marea di soldi, quasi nove milioni di euro a legislatura. Può farlo grazie a un articolo del nuovo Statuo del M5s, scritto lo scorso anno da Luca Lanzalone, che stabilisce la delega all’associazione Rousseau dell’amministrazione dei processi democratici del partito e, di conseguenza, nel regolamento viene prevista una quota per ogni eletto di 300€ al mese da conferire per lo scopo all’associazione di Casaleggio.

Questi soldi, più quelli raccolti tra i simpatizzanti, vengo utilizzati anche per altro, come ad esempio la Rousseau Open Academy, iniziativa di Casaleggio mai deliberata dagli organi del partito.

Tra i parlamentari, comprensibilmente, comincia ad esserci un po’ d’insofferenza: per quale motivo dev’essere proprio Davide Casaleggio tramite un’associazione privata? Perché non può farlo direttamente il partito, visto che peraltro il portale Rousseau è un colabrodo che mette a rischio i dati degli utenti?

È qui che interviene il primo punto della norma salva Casaleggio. L’articolo 9 della legge Bonafede dice che “sono equiparate ai partiti e movimenti politici le fondazioni, le associazioni e i comitati la composizione dei cui organi direttivi sia determinata in tutto o in parte da deliberazioni di partiti o movimenti politici ovvero che abbiano come scopo sociale l’elaborazione di politiche pubbliche”. Come Rousseau.

Viene legittimata per legge ed equiparata ad una fondazione politica l’associazione privata di Casaleggio, fondata insieme al padre mentre quest’ultimo era sul proprio letto di morte.

Viene legittimata per legge la successione dinastica dell’amministrazione del primo partito al governo dell’Italia.

Il primo passaggio cui ne seguiranno altri, come vedremo nei prossimi giorni, per blindare l’associazione Rousseau come amministratore del partito e mettere al riparo Casaleggio, e i soldi che raccoglie in nome e per conto del Movimento 5 Stelle, dai dubbi dei parlamentari.

La democrazia diretta è un pacco

Sta succedendo qualcosa che Di Maio e compagni si aspettavano, ma probabilmente non così in fretta e non così violentemente: cominciano ad avere difficoltà a presentarsi sui territori cui hanno promesso di cambiare tutto, senza poi cambiare niente.

Ormai è uno schema: a Taranto, avevano promesso di riconvertire l’ILVA e invece hanno confermato sostanzialmente gli accordi dei precedenti esecutivi; in Salento il governo Conte ha stabilito che non ha intenzione di fermare il gasdotto TAP per evitare la certezza di sanzioni e, ieri, i comitati hanno bruciato – gesto inquietante e irricevibile – una bandiera del Movimento 5 Stelle; a Roma l’esasperazione ha portato in piazza del Campidoglio migliaia di persone, senza bandiere di partito.

Proprio a Roma il Movimento ha cominciato a perdere la testa: il sindaco Raggi ha risposto alle proteste con un post molto arrogante sostenendo che fosse una manifestazione del Partito Democratico mascherata.

A seguire, il presidente del Consiglio Conte ha dichiarato, con riferimento al TAP, che “chi nega il rischio di sanzioni non sa le cose“.

Oggi, Luigi Di Maio arriva a minacciare i compagni, o meglio i sottoposti, di partito per i “cedimenti” nella fede che inizia a vedere.

Presto si dovrà prendere una decisione anche sul TAV in Val di Susa da dove già settimane fa erano arrivati segnali d’insofferenza.

Da questi episodi, a cui se ne aggiungeranno certamente decine di altri, possiamo capire un fatto che mina la stessa ragione sociale del Movimento: la disintermediazione. La retorica della democrazia diretta e partecipata grazie alla quale il M5s ha raccolto il 32% dei voti alle scorse elezioni promuove il rifiuto dell’analisi di situazioni complesse: si richiede il voto promettendo di eseguire ordini, non di prendere decisioni.

La differenza è fondamentale. Dimostrare di essere in grado di trovare il miglior compromesso per governare problemi complicati dominati da centinaia di variabili, e su questa base chiedere il voto, è un lavoro lungo e difficile. Ottenere consenso promettendo la propria sottomissione al volere dell’elettore è più facile, per evidenti motivi. Però, più si allarga il bacino elettorale più la menzogna diventa indispensabile: più elettori prometti di accontentare, meno diventa probabile riuscire a farlo per via delle contraddizioni che, inevitabilmente, sorgono.

A Taranto, non si possono promettere ad un tempo posti di lavoro e chiusura dell’ILVA, per dirne una.

Il Movimento 5 Stelle ha sempre raccolto consensi promettendo di accontentare comitati locali e urlatori assortiti invece di porsi come interlocutore credibile per trovare un compromesso accettabile, ma se guardiamo la storia degli ultimi dieci anni di “battaglie” del Blog di Grillo e del M5s questa strategia non ha portato a nulla. Niente stop alla base militare di Aviano. Niente stop al MUOS in Sicilia. Niente stop al quartiere Milano City Life. Niente stop al passante di Mestre. Niente risanamento del Comune di Roma. Niente. Niente. Niente.

L’unica cosa che, dopo dieci anni, è possibile affermare con certezza sulla base dei risultati concreti è che la democrazia diretta di Casaleggio è un pacco.

Hackerare la democrazia

 

Il concetto che ha dato il titolo a questo articolo non è mio (non voglio dirvi subito di chi è per creare un po’ di hype, lo saprete fra qualche mese), ma spiega benissimo il tema che le nostre democrazie devono affrontare, e alla svelta.

Davide Casaleggio è presidente di Casaleggio Associati, l’azienda di famiglia che si occupa di tecnologia, comunicazione, strategie aziendali, ma anche presidente dell’Associazione Rousseau, alla quale il primo partito di governo ha delegato la propria amministrazione.

È anche presidente di una (piccola?) associazione culturale fondata nel nome di suo padre Gianroberto Casaleggio, che organizza cene di finanziamento durante l’anno e un grosso evento con numerose conferenze e numerosi ospiti ogni anno a Ivrea (Sum).

Casaleggio gestisce tutte le attività attraverso queste entità che assolvono a specifiche funzioni, parla ed è riconosciuto leader del Movimento 5 Stelle ma non ha alcun ruolo formale in seno ad esso e, a leggere gli statuti, non esiste procedura per rimuoverlo dal proprio ruolo.

Questa condizione gli permette di amministrare attività, relazioni, potere, influenza in totale autonomia.

La struttura che hanno costruito Gianroberto e Davide Casaleggio, attraverso la quale acquisire potere, consenso, dati e relazioni, è un pericolo per i nostri sistemi istituzionali? Siamo preparati a gestire un nuovo modello organizzativo in cui è formalmente legale l’accentramento dell’amministrazione del partito, del consenso, delle relazioni, dei processi democratici, ma il titolare di questi poteri non è sottoposto ad alcun controllo democratico?

ByoBlu, il BreitBart italiano

Negli Stati Uniti, la vittoria di Trump è stata concimata e coltivata anche e soprattutto da un sito di nome BreitBart, fondato e dirett Complotti e verità alternative: Messora è un caso da studiare o dall’ex stratega Steve Bannon.

BreitBart ha dato voce ed è servito da crocevia di quella sottocultura della peggiore destraccia americana nata insieme al Tea Party che già nel 2008, con Sarah Palin candidata vicepresidente, aveva sfiorato la Casa Bianca.

Il sito di Bannon è stato, ed è, il posto in cui trovi tutto ciò che riguarda quell’area culturale: tutte le voci, i complotti, le verità alternative, tutto ciò che si può considerare affine alla sensibilità degli elettori di Trump si trova lì.

Anche in Italia c’è una realtà simile: il sito e il canale YouTube di Claudio Messora, conosciuto come ByoBlu.

Ne parlo perché ci sono capitato quasi per caso, dopo molto tempo, l’altro ieri e l’ultimo video era una conferenza in cui allo stesso tavolo, vicino a Messora, sedeva il Presidente della Rai Marcello Foa. Foa è noto agli spettatori di ByoBlu: scorrendo la timeline dei video pubblicati lo si ritrova spesso intervistato, insieme a Bagnai, Borghi, Fusaro, Montanari, Chiesa ma anche esperti seri come Marco Montemagno e Guido Scorza.

La storia di Messora è interessante, ma non ne voglio parlare qui (magari lo faremo più avanti). Quello che vorrei sottolineare, a malincuore, è l’errore commesso in questi anni, anche da me, nel sottovalutare l’importanza di quella realtà. Mescolando le peggio minchiate della Rete a importanti temi d’attualità Messora ha contribuito a creare la sottocultura economico-politico-bufalar-complottista che oggi è classe dirigente al governo del Paese.

Molte di quelle persone “di casa a ByoBlu” come recita il titolo di una delle playlist, ricoprono importanti ruoli pubblici e istituzionali, o sono considerati organici a quell’area.

Di contro, e spero di sbagliarmi, non esiste in Rete un equivalente luogo virtuale riconoscibile come la casa di chi oppone la medicina alle bufale sui vaccini, la scienza economica al Monopoli, il fact checking alle verità alternative.

Che ne pensate?

La vera storia della scalata di Di Maio

Nei giorni scorsi ho conversato con alcuni amici, per lo più militanti del Partito Democratico, che si interrogavano sulla carriera politica di Di Maio. La domanda più gettonata è: come ha fatto?

Come ha fatto a diventare ministro e vicepremier a 31 anni, a ribaltare il suo partito, a prenderlo in mano e condurlo oltre il 30%. Come fa a tenerlo insieme, così apparentemente compatto, al governo? Come ha messo a tacere, anzi portandoli dalla sua parte, i suoi avversari interni, perfino Beppe Grillo?

Domande lecite, opportune, che meritano una risposta.

Di Maio non ha imposto una visione politica, non ha convinto gli avversari interni, non ribaltato il partito. Di Maio non è un animale politico: ha solo capito, in questo sì è stato bravo, quali fossero le esigenze dei suoi compagni di viaggio e ha dato a ciascuno quel che voleva.

Nel 2013 il Movimento 5 Stelle conquista il 25% dei voti, elegge 160 parlamentari. Molti non si conoscono nemmeno tra loro, non c’è una vera strategia per affrontare il successo oltre le previsioni. Per alcune settimane il Movimento vive di rendita: la sconfitta di Bersani manda manda nel panico i democratici. Quando s’insediano le Camere nessuno sa come si sarebbero comportati i “grillini” così, per non sbagliare, gli si concede la vicepresidenza della Camera dei Deputati. Di Maio è scaltro: studia i regolamenti e si fa assegnare l’incarico dal suo partito, che per selezionare le cariche istituzionali, all’epoca, sottoponeva i candidati alla “graticola”, una sorta di interrogazione per saggiarne le qualità. Nella desolazione di cervelli che era il gruppo parlamentare all’epoca, il parlamentare campano spicca. Preparato e “istituzionale”, mastica politica fin da piccolo (il padre è un ex dirigente del Movimento Sociale). Viene eletto.

Dalla vicepresidenza della Camera Di Maio ha gioco facile: può avere un suo staff personale, può premiare e punire i suoi colleghi agevolando o bloccando proposte ed emendamenti. Comincia a costruire la propria influenza nel partito.

Nel frattempo, non si risparmia nemmeno sul territorio: spende, nella legislatura, centinaia di migliaia di euro in “eventi sul territorio”, finanziamento pubblico al (proprio personale) partito, per pagare incontri con gli attivisti.

Sempre attento, in equilibrio tra parole d’ordine e ruolo istituzionale, a non contraddire i capi: Grillo e Casaleggio.

Il quale Casaleggio, a ridosso delle elezioni europee del 2014, si ammala per la seconda volta e perde il polso sul partito. Inizia la scalata.

A Milano, il figlio comincia ad occuparsi sempre più spesso del partito, all’insaputa di tutti salvo i fedelissimi, in particolare Pietro Dettori.

A Roma, Casalino diventa capo della comunicazione sia alla Camera che al Senato.

Di Maio fa la sua mossa: manda avanti un collega (non si espone mai in prima persona) e fa proporre ai “garanti” la costituzione del Direttorio. Inizialmente, la proposta è respinta: in Supernova documentiamo un ferocissimo scambio via email tra i fondatori e lo sherpa del vicepresidente della Camera. Ma è solo questione di tempo: alla fine, il direttorio si fa. Ne fanno parte Di Maio, Di Battista, Fico, Sibilia e Ruocco. Due potenziali avversari, un’amica stretta di Grillo, il riferimento dei parlamentari complottisti (che all’epoca non sono pochi). In quell’organo, che diventa di fatto la segreteria del Partito, Di Maio consolida il suo potere e la sua influenza: gli altri parlamentari escono dai radar dei giornali, che si concentrano sui cinque.

Quell’esperienza dura due anni, fino al 2016, quando diventa chiaro che la leadership politica del partito è, ormai, di Di Maio.

Casaleggio muore ad aprile di quell’anno: era l’unico vero ostacolo alla corsa del fuoricorso di Pomigliano. Alla festa del partito nel 2015 a Imola, infatti, Casaleggio aveva urlato nel microfono con le poche forze che gli rimanevano: “non ci faremo imporre il candidato premier dalle televisioni”. Il riferimento era chiarissimo. E infatti, due giorni dopo il funerale del fondatore, Luigi Di Maio è in TV, in prima serata, al TG1: “il candidato lo sceglieremo in rete, se il Movimento vorrà io non mi tirerò indietro”. È fatta.

In quel momento è già tutto deciso: Di Maio e Davide Casaleggio, il figlio del defunto fondatore, hanno già stretto l’accordo. Davide continuerà a gestire i dati e i soldi delle donazioni, centinaia di migliaia di euro all’anno (oggi, alcuni milioni a legislatura), Luigi sarà il capo. Garante del patto: Rocco Casalino, che mantiene il controllo sulla comunicazione, premiando e punendo i parlamentari ossia scegliendo chi va in tv, chi rilascia interviste.

Casalino diventa depositario di tutti gli sfoghi, le confidenze, le lamentele dei parlamentari. Anche della fronda che non ci sta: pochi parlamentari che vorrebbero una vera sfida ai vertici per la candidatura a premier. Vogliono Roberto Fico.

La Rivolta monta, viene riportata dai giornali. Ma dura poco: Di Maio sa di avere dalla sua Casaleggio, Casalino, la maggioranza del gruppo parlamentare e un nuovo Statuto nel cassetto. Nel 2017 Luca Lanzalone scrive, infatti, le nuove regole: l’associazione Rousseau di Casaleggio diventa di fatto la tesoreria del Movimento, controlla le donazioni e i processi democratici del partito; il capo politico non è più Grillo, ma viene eletto dalla base.

La votazione si svolge, ma contro Di Maio non c’è nessuno dei parlamentari di peso: né Di Battista né Fico si candidano. Di Maio diventa candidato premier, garantendo i parlamentari in uscita: tutti avranno la loro fetta di torta.

Oggi, i parlamentari di seconda nomina hanno quasi tutti un incarico istituzionale: chi presidente di commissione, chi sottosegretario. Perfino Laura Castelli, che è stata nostra fonte per Supernova: viceministro. Roberto Fico è presidente della Camera. Davide Casaleggio conserva il suo ruolo, inamovibile, la sua influenza, l’amministrazione dei soldi.

 

La legislatura del voto di scambio

 

Tra le decine di motivi, di cui ho già parlato, per cui questa legislatura durerà cinque anni possiamo aggiungere il seguente, soprattutto alla luce degli eventi dello scorso weekend: gli equilibri parlamentari di maggioranza e opposizione si reggono su accordi più o meno taciti tra i partiti di maggioranza, tra quesi e quelli delle “due opposizioni” — ci torniamo — e le decine di piccoli accordicchi locali e nazionali tra M5s e Lega e i rispettivi elettorati. Per quanto riguarda il più grosso partito di maggioranza, il Movimento, possiamo aggiungere i ricatti incrociati e le prebende distribuite.

Cominciamo dai rapporti tra maggioranza e opposizione: viviamo nell’incredibile condizione per cui, come già qualche osservatore ha sottolineato, esistono due mezze opposizioni al governo. Forza Italia resta alleata della Lega a livello locale e avversaria a livello nazionale ed Europeo (fanno parte di due diversi gruppi parlamentari avversari), pertanto si limita a qualche incursione contro il Movimento, carezzando compassionevolmente Salvini. Il Partito Democratico, o quel che ne resta, fortemente provato dalla batosta elettorale, è diviso tra chi vorrebbe fare opposizione senza quartiere e chi ancora coltiva la speranza di governare coi Cinque Stelle; così, ferocissimi attacchi a Salvini ma abboccamenti continui a Roberto Fico, che non conta un bel niente ma basta il cognome.

I due partiti di maggioranza hanno fatto un accordo di governo — il noto Contratto — che di fatto è il risultato del cherry picking di alcune promesse di ciascuno dei contraenti, incoerenti e incompatibili tra loro come il condono fiscale e la rendita di cittadinanza. Cosa regoli davvero i rapporti tra Salvini e Di Maio lo si è visto plasticamente nel corso del weekend: le rispettive porcate sono diventate merce di scambio per ricomporre un’incomprensione dovuta al pessimo lavoro svolto da Laura Castelli nella stesura del decreto fiscale. Il condono fiscale della Lega, alla fine, è rimasto com’è rimasto il condono edilizio di Ischia. Potremmo fare un elenco sterminato, ma limitiamoci a ricordare solo gli occhi chiusi di fronte al furto di 49 milioni di euro del partito di Salvini, in cambio del sostanziale disinteresse per il ciclopico conflitto di interessi di Davide Casaleggio.

Del resto, anche il rapporto coi rispettivi elettorali è fondato sullo scambio di favori: voti in cambio di soldi. Condono fiscale e flat tax le promesse di Salvini, rendita di cittadinanza, condoni edilizi a Ischia, “abuso di necessità” in Sicilia nonostante i conti pubblici non lo permettano. A Roma, poi, le cronache riportano un’eccellente opinione sulla gestione del comune da parte della famiglia Tredicine, del groviglio di interessi Ama-Atac, dei tassisti (nota la posizione ostile a Uber del Movimento), e così via.

Arrivando al Movimento, Di Maio e Casaleggio lo gestiscono con metodi estremamente chiari per chi li vuole riconoscere. Una complessa, solida, struttura di favori, silenzi, ricatti e prebende che hanno permesso a ciascun attore di ottenere il massimo possibile alle condizioni date. Ne parleremo presto.

SMS: pensi d’iscriverti al Movimento 5 Stelle ma regali i tuoi dati a Casaleggio

 

Per farmi del male, ho passato la domenica seguendo la Leopolda e Italia 5 Stelle. Non ci crederete, ma c’è un tema di cui si è parlato ad entrambe le manifestazioni che spiega bene come capire come si esercita il potere oggi.

Il tema è quello dei dati. Alla manifestazione di Matteo Renzi l’ha trattato, con competenza, il Prof. Carlo Alberto Carnevale Maffè, spiegando che dai dati si deve ripartire per costruire un’alternativa all’attuale maggioranza, con una struttura Open Source “non come Rousseau, per intenderci”.

Nel frattempo, a Roma, Davide Casaleggio presentava “una nuova funzione di Rousseau”: la possibilità di iscriversi via SMS. Già, ma iscriversi a cosa? Alla piattaforma Rousseau, che risiede all’indirizzo rousseau.movimento5stelle.it, un sottodominio del sito del partito, registrato a nome del partito.

A chi si manda l’SMS? Il numero di telefono 43030 risulta, dall’elenco disponibile attraverso il sito del MISE, registrato alla società SMS Italia s.r.l., un provider di servizi telefonici a cui, evidentemente, il M5s si rivolge per la gestione di questa funzionalità. Il M5s? Sicuri?

Come al solito, non è chiaro per l’utente, come dovrebbe essere in base alla nuova normativa GDPR, che giro facciano i dati. Il sito a cui il servizio rimanda per la normativa sui dati personali è m5sms.it, il cui titolare è l’Associazione Rousseau di Davide Casaleggio. Pensi di collegarti a un sito del Movimento (m5sms.it) ma non è vero. Per scoprire che in realtà sta parlando con Rousseau e non con Dibba un ignaro utente dovrebbe prima fare clic sul link che rimanda alla Cookie Policy del sito del Movimento. Attenzione, non la Privacy Polici, la Cookie Policy. Da lì accorgersi che non è quello il disclaimer sul trattamento dei propri dati e linkare su “Privacy Policy”, che rimanda a un PDF dove, nascosto in norme e codicilli, si dice che Rousseau è il titolare del trattamento dei dati.

Insomma: non ci si può iscrivere al Movimento senza contemporaneamente iscriversi a Rousseau e viceversa e, nel farlo, è obbligatorio consegnare i propri dati a Davide Casaleggio. Che, in questo modo, consolida la propria influenza sul partito.

A chi si deve rivolgere Di Maio per sapere il numero di iscritti? Casaleggio.

A chi si deve rivolgere Di Maio per inviare una comunicazione agl’iscritti? Casaleggio.

A chi si deve rivolgere Di Maio per lanciare una consultazione tra gl’iscritti? Casaleggio.

Chi detta legge nel Movimento?

La manina: cosa è successo davvero in quel Consiglio dei Ministri?

di Marco Canestrari e Nicola Biondo

Cosa sta succedendo davvero intorno al decreto fiscale? Chi ha fatto davvero litigare i viceministri Di Maio e Salvini?

Ieri Giorgetti, sottosegretario leghista alla Presidenza del Consiglio, rilascia un’intervista lasciando intendere che ci siano state “distrazioni” da parte dei 5 Stelle e che non conviene a Di Maio alzare i toni perché “scoprirà che la famosa “manina” è in casa loro”. Nel pomeriggio Laura Castelli, sottosegretaria M5s al tesoro, racconta a Repubblica: “tutti sappiamo cos’è successo in quella stanza” e aggiunge “non ci prendiamo in giro” senza però entrare nel dettaglio e ribadendo la contrarietà al condono.

Poco dopo, lo stesso Salvini durante una diretta Facebook assicura lealtà al governo, ma respinge con forza ogni accusa ricordando che durante quella riunione “Conte leggeva e Di Maio verbalizzava”.

L’impressione è che ormai tutti i protagonisti dell’incidente sul decreto fiscale abbiano capito com’è andata davvero ma, per imbarazzo reciproco, non lo possano ammettere pubblicamente.

Togliamo noi Di Maio, Salvini e Conte dall’imbarazzo e raccontiamo come sono andate le cose, così come abbiamo ricostruito anche grazie a fonti che nella stanze di quelle riunioni — il 15 ottobre — c’erano.

Lunedì 15 ottobre si riunisce il Consiglio dei Ministri che approva, tra le altre cose, il decreto fiscale. In preconsiglio e durante tutte le riunioni propedeutiche i testi vengono riletti, analizzati, limati articolo per articolo. Qualcuno — durante o dopo le riunioni — si accorge del problema sull’articolo nove, un passaggio molto tecnico, ma non dice nulla per molte ore. L’articolo passa: Conte legge, Di Maio scrive e verbalizza.

Il giorno dopo Di Maio si sta recando da Vespa per la registrazione di Porta a Porta e riceve una chiamata. L’interlocutore spiega che al Quirinale sta per arrivare un testo che contiene il condono, che Casalino è avvertito e che si può sfruttare mediaticamente questo fatto su Rai1. Chi parla è la stessa persona che aveva notato la norma, senza sollevare il problema nella sede opportuna. Viene concordato l’attacco: una manina, politica o tecnica, ha infilato il condono.

Di Maio in trasmissione da Vespa e, contemporaneamente, sulla sua pagina Facebook denuncia il “fatto gravissimo”. La Lega reagisce con compostezza: “Tutti eravamo d’accordo, l’abbiamo letto e riletto, nessuno ha sollevato obiezioni”.

Il caso monta, i toni si accendono. Proprio come accadde con il caso dell’impeachment a Mattarella, però, a sbraitare sono solo i Cinque Stelle mentre i Leghisti mantengono la calma.

Ieri, le interviste a Giorgetti e Castelli, che è noto non vadano molto d’accordo: la sottosegretaria è convinta che il leghista abbia una responsabilità nel fatto che non abbia ancora ricevuto deleghe da Tria.

Oggi ci sarà il Consiglio dei Ministri per risolvere la questione. Emergerà che non c’è stata alcuna manina: qualcuno nel Movimento ha dato un’informazione sbagliata a Di Maio, informazione che il vicepremier non ha verificato, fidandosi dell’interlocutore. Che però è la persona che avrebbe dovuto controllare i testi tecnici ed evitare proprio questo genere di problemi. Perché non l’ha fatto, cercando di capitalizzare l’informazione? E chi è?

La logica, e alcune fonti, portano proprio a Laura Castelli che ieri e oggi, nei corridoi dei palazzi romani, si diceva essere in grossa difficoltà. Qualcuno addirittura preconizzava una sua defenestrazione dal ministero del Tesoro: se c’è una cosa che Di Maio non sopporta, e non può permettersi, è rovinare il rapporto con Salvini che tutti sottolineano essere ottimo, personalmente.

“Ce l’avete messa voi lì, l’avete voluta voi. Se combina casini non è colpa nostra, dovete risolvere voi il problema. Io sono disposto a togliere qualcosa ma tu e io abbiamo un accordo e va rispettato”, avrebbe detto Matteo a Luigi in una telefonata dopo la puntata di Porta a Porta.

L’eredità avvelenata di Gianroberto Casaleggio

 

Non so come finirà la pantomima del decreto fiscale e della finanziaria ma riconosco lo schema e le paranoie che stanno guidando le scelte politiche e comunicative di Luigi Di Maio.

Sono le stesse incapacità e paranoie che aveva Gianroberto Casaleggio infuse fin dal principio nella sua creatura politica, nella sua macchina comunicativa.

La paranoia degli infiltrati, la cultura del sospetto, il timore del sabotaggio; e la totale incapacità di trattare, mediare, confrontare le posizioni per giungere a un compromesso.

Casaleggio, afflitto da un ciclopico complesso d’inferiorità, pur essendo colto e intelligente, non ammetteva, non concepiva che qualcuno potesse giungere a conclusioni diverse dalla sua avendo a disposizione gli stessi elementi da valutare. Rifiutava la possibilità di ammettere un errore. Quando colto in fallo, quando minacciato da eventi non previsti, la sua reazione era spesso scomposta: espulsioni, divieti, i famigerati “Ps.” in fondo ai post del blog di Beppe Grillo.

Con lui non si poteva trattare, non era in grado di trattare, non voleva cercare compromessi.

Questo clima lugubre di terrore ha sempre aleggiato nei gruppi parlamentari del Movimento e, ora, domina gli animi di ministri e sottosegretari con l’ansia da prestazione governativa.

Incapace di trovare soluzioni, Casaleggio si rifugiava nella comunicazione: era irrilevante la conseguenza di una decisione, l’obiettivo era comunicare il messaggio.

Questo è la chiave per decifrare quel che sta succedendo in questi giorni, soprattutto in vista di “Italia 5 Stelle”, l’incontro nazionale in programma a Roma il prossimo weekend: i nodi si scioglieranno nel modo migliore possibile funzionale alla comunicazione all’elettorato che i parlamentari incontreranno fra pochi giorni.