The Democrat dilemma

C’è un bell’articolo di Nicola Pedrazzi sul Mulino. L’analisi storica sulla genesi e il successo del Movimento 5 Stelle sono assolutamente condivisibili e vi consiglio di leggerle con attenzione. C’è tanto, in quelle righe, anche su di noi.

Nicola rilancia il pezzo su Twitter con questo commento:

Io non condivido la tesi. Forse poteva essere vero qualche anno fa: il Movimento non era organico al centrosinistra, come non lo era al centro destra pur condividendone sostanzialmente tutte le peggiori piattaforme. Ciò che davvero voleva e vuole ottenere il Clan Casaleggio non è rovesciare il sistema ma sedersene a capotavola. Ora, tale obiettivo può essere ottenuto in svariati modi, con la destra, con la sinistra, con una legge maggioritaria, eccetera.

Ma io credo che un errore molto grave sia sopravvalutare la nobiltà delle intenzioni del centrosinistra italiano. Soprattutto il Partito Democratico, temo si senta investito di una missione sacra per conto di Dio per la quale ogni compromesso diventa digeribile pur di restare al potere. Lo dice la storia. Il PD – nelle sue successive reincarnazioni – è quel partito che ha spiegato di dover governare con Mastella per evitare Berlusconi. Poi con Berlusconi per evitare Grillo e Casaleggio. Adesso con Grillo e Casaleggio per evitare Salvini. Non credo ci siano limiti scolpiti nella pietra.

Per questo, dal mio punto di vista, la questione va ribaltata: accettare una personalità mediocre come Conte, accettare il macroscopico conflitto d’interessi di Casaleggio, significa che culturalmente Grillo e Casaleggio hanno vinto. Non Di Maio.

Io penso che il Movimento 5 Stelle, oramai, non sia “estraneo” al centrosinistra, ma che il centrosinistra sia ormai organico – per scelta consapevole – ai Cinquestelle fintanto che la somma dei parlamentari di ciascuno permetterà loro di restare coi piedi ben piantati nei ministeri. Non è vero, come dice Bersani, che il M5S sia un “personaggio in cerca d’autore”: l’autore ce l’hanno, si chiama Davide Casaleggio. È il centrosinistra che si è adattato a cambiare spartito a seconda delle circostanze. La domanda è: il PD è disposto a sacrificare il governo Conte (con l’elezione del capo dello stato fra due anni) se il mese prossimo Di Battista dovesse vincere (qualsiasi cosa voglia dire da quelle parti) il congresso?

Io credo che da qui non se ne possa uscire, finché non ci sarà qualche sostanziale novità nell’offerta politica del Paese.

Il voto su Salvini non è una svolta

Due giorni fa ho spiegato quali sono state le difficoltà tecniche di Rousseau, perché non sono risolvibili e soprattutto cosa dovrebbero chiedersi parlamentari e attivisti del Movimento: cosa ci fa Casaleggio coi soldi se la piattaforma fa così schifo?

Oggi vediamo quali sono le conseguenze politiche del voto che ha evitato il processo a Salvini, l’alleato di governo del partito di Di Maio. O meglio, cosa certifica quel voto: perché l’esito è un punto d’arrivo, non una svolta inaspettata.

Almeno non per chi da parecchi anni, ormai, vede il M5s per quello che è: il ramo d’azienda politico di un Sistema gestito da Davide Casaleggio. Il M5s è stato scalato, trasformato e modellato sulla base di un’agenda completamente diversa da quella di suo padre.

Se prendiamo per valido l’esito del voto, 60% a favore del salvacondotto a Matteo Salvini, significa che non solo il partito ma pure la sua base è stata rimodellata. Ripeto, non che sia una novità. Io e Nicola Biondo nel nostro libro Supernova abbiamo descritto per filo e per segno il processo di mutazione.

È un processo iniziato subito dopo lo sbarco in Parlamento nel 2013 che si è concluso nel 2017 dopo la morte di Gianroberto Casaleggio. Il partito è stato scalato da un gruppetto di giovani arrivisti, con l’aiuto decisivo di un paio di funzionari di partito che, da Milano, hanno agevolato e guidato la transizione.

A cominciare dalla costituzione del Direttorio: già lì era chiaro dove si andava a parare.

Il voto su Rousseau che permette a Salvini di evitare il processo è l’esito naturale del percorso. Non è vero che i parlamentari siano scollati dalla base: gl’iscritti e soprattutto gli elettori sono in perfetta sintonia, almeno la maggioranza di loro (inteso sia i parlamentari che gl’iscritti). Sono stati sempre selezionati affinché fossero plasmabili a seconda della necessità del momento. Gli attivisti non esistono più, esistono solo i fan delle pagine Facebook. I follower dei canali Twitter.

Il volto del Movimento Cinque Stelle non è più Beppe Grillo, ma il senatore Giarrusso. Membro della giunta per le autorizzazioni a procedere, ieri ha votato per parare le chiappe a Salvini. Uscito dall’aula ha mostrato ai parlamentari PD il segno delle manette, riferendosi al padre di Renzi agli arresti. Una sintesi perfetta: noi al potere salviamo gli amici, voi finite in galera.

Il voto su Rousseau ha pure rassicurato Di Maio e Casaleggio riguardo un altro aspetto della mutazione che stanno apportando al Movimento. Da giorni sono annunciate novità rispetto all’organizzazione. Si parla di una segreteria politica, di una rete territoriale. Il timore che la base non digerisse il passaggio è svanito. I supporter approveranno qualsiasi cosa. Ratificheranno qualsiasi decisione. Adesso che la linea Di Maio – Casaleggio è stata confermata, anche la resistenza interna non ha più ragione d’essere. Il voto su Salvini era un voto su chi comanda: comandano Casaleggio e il suo amministratore delegato Di Maio. Fine.

Chi segue me o chi ha letto Supernova sa bene che il rapporto con la Lega nasce lontano nel tempo. Leghista della prima ora era Gianroberto Casaleggio. Incontri più o meno segreti si sono svolti durante tutta la scorsa legislatura. La propaganda, i temi, le alleanze internazionali hanno sempre più chiaramente svelato che gli elettorati e gli eletti si piacciono. Sono simili e compatibili.

Il prossimo passo saranno le elezioni europee. Il Movimento 5 Stelle non ha trovato alleati per formare un gruppo. I quattro che ha presentato (destracce e fascistame vario) non sono sufficienti, ammesso che riescano a eleggere dei parlamentari. Mi sbilancio e prevedo che la scelta sarà tra il gruppo con la Lega e l’irrilevanza. E Di Maio sceglierà la prima.

Guai sulla piattaforma Rousseau: sono finiti gli hacker!

Dichiaro fin da subito che l’idea di usare “ciofeca” per definire la piattaforma Rousseau di Davide Casaleggio è di Nicola Biondo. Quindi nel caso denunciate lui: se qualcuno chiederà l’autorizzazione a procedere, a quel punto mi autodenuncio anche io.

Ciò detto, ieri si è tentato di svolgere la votazione sulla Ciofeca per stabilire se il Movimento debba o meno concedere l’autorizzazione a procedere nei confronti del ministro Salvini.

Secondo l’amministratore unico della Ciofeca, gl’iscritti – o chi per loro – hanno deciso (30.948 contro 21.469) che Salvini non andrà processato. Non che sia importante: nessuno sa se questi risultati siano veri o falsi. O meglio lo sa solo uno: Davide Casaleggio.

Infatti, il codice della Ciofeca non è pubblico, lo conoscono solo Casaleggio e i suoi tecnici. Questo impedisce, ovviamente, qualsiasi verifica sul buon funzionamento del sistema di voto e di conseguenza ogni verifica sulla correttezza del risultato.

Inoltre, per tutta la giornata ci sono stati problemi tecnici: prima è stato rinviato il voto di un’ora, dalle 9 alle 10. Alla fine è iniziato alle 11 e si è concluso alle 21.30. Il buon David Puente, su Open, ha documentato la giornata. Le operazioni di voto per ogni singola persona potevano durare anche ore. Non tutti hanno ricevuto conferma dell’avvenuta votazione. Una parlamentare, Elena Fattori, si è lamentata di non riuscire nemmeno a collegarsi.

In effetti, nelle prime ore della mattinata, ci sono stati parecchi errori del sistema che ospita la piattaforma. Perché?

Anzitutto, possiamo escludere che ci siano state violazioni esterne: sono finiti gli hacker. Infatti, come accade quando non si sa che pesci pigliare, spesso in passato è stato usato l’attacco esterno contro il voto per giustificare quelli che oggi sappiamo essere altro. Per la precisione gravi carenze nello sviluppo e nella gestione dei sistemi. I tecnici che hanno sviluppato e che amministrano Rousseau semplicemente non sono capaci di farlo. Non sono proprio in grado.

Il punto è questo: se sai quanti utenti sono iscritti devi dimensionare la struttura per sopportare un voto di tutti gl’iscritti contemporaneamente. Se non lo fai e il server (per semplificare) è sottodimensionato, si crea un collo di bottiglia e ci sono i casini di ieri sulla Ciofeca.

A dimostrazione, per cercare di sgorgare la fogna, sono stati quasi subito rimossi alcuni fondamentali controlli di sicurezza, come l’autenticazione a doppio fattore (un SMS con un codice oltre alla password per poter accedere) e il messaggio di conferma dell’avvenuta votazione.

La domanda è: ma che cavolo ci fa Casaleggio col fiume di denaro che gestisce tramite Rousseau invece di sviluppare una Ciofeca che funzioni?

Domani facciamo qualche considerazione politica facendo finta che questo voto abbia un qualsivoglia valore.

La Bestia siete voi

Voglio fare un paio di riflessioni sulla comunicazione di Salvini e Di Maio.

La prima è che il Movimento rincorre. Da settimane lo stile dei parlamentari, soprattutto del ministro del Lavoro, sui social network replica quello di Salvini e Morisi. Soprattutto durante le vacanze natalizie è stato un fiorire di cuoricini, bacioni, piste da sci, bambini, piatti tipici.

Morisi è più bravo di Casaleggio e di Casalino. Almeno lo è stato fino ad ora, visto che anche i dati di “coinvolgimento” dei profili del capo della Lega non stanno andando benissimo. Questo è uno dei motivi, peraltro, per cui anche l’azione politica è a rimorchio dei leghisti: sanno imporre l’agenda, sia che si tratti di scemate sia di temi sensibili. Chiusa la manovra, infatti, si è tornati subito a parlare d’immigrazione.

La seconda è sulla cosiddetta “Bestia”, il sistema che Luca Morisi e il suo staff utilizzerebbero per gestire la comunicazione del “Capitano” Salvini. La riflessione è la seguente: la Bestia non esiste, siete voi.

La Bestia è stata descritta mesi fa da Rolling Stone come un sofisticato strumento informatico che permetterebbe il monitoraggio in tempo reale dei profili e del “sentiment” della Rete. Venne descritto un sistema simile, anni fa, in relazione alla comunicazione del Movimento.

La verità è probabilmente più semplice: l’agenzia di Morisi non fa che utilizzare le decine di strumenti di analisi e automazione disponibili a tutti, gratis o quasi. Non c’è nessun sofisticatissimo strumento, solo intuizioni e implementazioni efficaci.

La Bestia siete voi perché la comunicazione online di queste persone si basa sulla ripetizione del messaggio da parte degli utenti, che così lo propagano. Mandare a quel paese Salvini su Twitter e Facebook ha il solo effetto di moltiplicare le persone (quelle a voi connesse) che vedranno quel messaggio. Siete voi, che commentate, riportate, v’indignate (giustamente) per i post fuori contesto di Salvini, la sua manovalanza.

In questo modo si ha il doppio effetto di parlare molto della merenda del ministro e poco del fatto che al ministero ci passa mezza giornata ogni tanto facendo danni.

Così, perché lo sappiate.

Europee: Salvini e Di Maio cacciano nella stessa foresta

Fino al 23 maggio, quando si rinnoverà il Parlamento Europeo, parleremo spesso di quel che accade a Bruxelles in vista dei nuovi assetti politici.

Qualche settimana fa vi avevo raccontato perché il Movimento potrebbe avere grosse difficoltà dopo il voto europeo, tra le strategie di Di Maio e i veti di Casaleggio.

In breve: per contare qualcosa il Movimento deve far parte di un gruppo politico. A causa della Brexit, lo UKIP con cui sono alleati non ci sarà più e Di Maio sta cercando una nuova casa per il partito. Senza un gruppo, non ci sono soldi per gli uffici e non c’è la possibilità di svolgere molte attività politiche, né ambire ad alcune importanti cariche.

In questi giorni si parla di un documento chiamato “Manifesto dei sette” che sarebbe in procinto di essere annunciato da Di Maio e altri capi-partito europei. Il nome, verosimilmente, è dovuto al fatto che ogni gruppo deve rappresentare almeno sette diversi paesi europei.

Si dice che Di Maio stia cercando di formare una nuova coalizione di partiti non allineati alle grosse formazioni, popolari, socialisti, verdi, il gruppo di Salvini e Le Pen. L’altro gruppo di destra, i Conservatori, probabilmente scomparirà, venendo a mancare l’apporto dei conservatori inglesi. Numerosi attori vecchi e nuovi avranno lo stesso problema del Movimento: trovare una collocazione politica per accedere a fondi, cariche, tempo di parola in assemblea.

Non sarà facile.

Sono in grado di aggiungere qualche tassello al rompicapo grazie ad alcune fonti che, comprensibilmente, hanno chiesto di non essere citate.

Il Movimento certamente non chiederà di aderire ai Popolari o ai Socialisti, che comunque lo respingerebbe. Importanti personalità dei Verdi stanno investendo le loro energie allo scopo di evitare un accordo con Di Maio. La componente tedesca, per dire, ha posto come condizione – irricevibile – la caduta del governo Conte.

Non solo: Di Maio deve anche fare i conti con la concorrenza “interna”. Salvini, ci raccontano, sta giocando una sua partita. Con la prospettiva di essere il primo partito del Paese a maggio, può ambire a negoziare un accordo col Partito Popolare Europeo. Per farlo, però, deve anche portare in dote un sufficiente numero di parlamentari. Da qui la necessità di allargare il proprio gruppo, andando a cacciare nella stessa foresta di Di Maio e Casaleggio, con carte migliori.

Un accordo coi Popolari lo rende più attraente agli orfani dei Conservatori e ai partiti alla prima esperienza ai quali garantirebbe incarichi di maggioranza.

Di Maio, invece, potrebbe offrire solo l’opposizione.

Salvini è grillino!

“Siamo il cambiamento!”

[I ministri] “sono dipendenti al vostro servizio!”

“Siamo il primo movimento politico del Paese!”

Vi ricordate Beppe Grillo urlare dal palco di Piazza San Giovanni queste parole? Bene, vi ricordate male, perché queste sono le parole di Matteo Salvini urlate dal palco di Piazza del Popolo a Roma, due giorni fa.

Mi sono guardato i tre quarti d’ora di comizio.

C’è un fatto di cui non si è apparentemente accorto nessuno. Del resto, bisogna conoscere la storia e aver vissuto i primi anni del Blog di Beppe Grillo, dei V-Day e delle liste civiche per capire cosa stia facendo il capo della Lega.

Il discorso è pieno zeppo di riferimenti e parole d’ordine care al Movimento 5 Stelle, quello delle “origini”, dei V-Day. Di slogan di Casaleggio come “non molleremo mai”. Di repertorio di Beppe Grillo: “ci vuole un’idea di futuro a cinquant’anni“.

Sono risuonate parole come “cambiamento”, “cittadini”, “onestà“. Perfino il passaggio sulle forze dell’ordine che “sono con noi” non è di Salvini: lo diceva Beppe Grillo ai comizi.

I casi sono due: o Matteo Salvini sta cercando di tranquillizzare l’elettorato e i parlamentari del compagno di strada, Luigi Di Maio, oppure glieli vuole soffiare.

L’impressione che ho avuto è che il ministro dell’Interno stia giocando una partita inedita. Stia cercando di scambiare il mazzo con l’alleato di governo, avendo fiutato qualcosa.

Sei mesi fa il Movimento e Di Maio erano considerati l’ala moderata del governo e Salvini quella estremista. La percezione è cambiata o sta cambiando velocemente. La Lega vuole apparire più dialogante, responsabile (altro termine ricorrente durante il comizio), coi “piedi ben piantati a terra”. Perfino l’Europa non è più il nemico, ma va “cambiata dall’interno“. Proprio come proponeva Di Maio in campagna elettorale.

In politica, come sempre, i vuoti si riempiono. Così, se Di Maio non è considerato affidabile dai rappresentanti delle categorie produttive, Salvini li accoglie al ministero. Se il Movimento propone una tassa sulle auto inquinanti, Salvini mette il veto.

Così facendo, costringe gli alleati su posizioni più estreme, per potersi accreditare come quello ragionevole.

Se Di Battista si schiera con le proteste in Francia, Salvini sottolinea quanto sia pacifica la sua piazza. Come fece Grillo a Bologna l’8 settembre 2007.

Conta, in questo scenario, tutta l’esperienza politica di Salvini e soprattutto di Giorgetti, molto più scaltri e rapidi ad annusare il vento che cambia. Diceva Enrico Cuccia che le azioni non si contano ma si pesano. Lo stesso vale per i voti: Salvini ha preso il 17% il 4 marzo scorso; Di Maio il 32%; ma il consenso del governo, adesso, lo tiene alto la Lega.

Per questo comanda Salvini.

Che si vuole riprendere uno a uno i voti – soprattutto quelli del Sud – del centrodestra migrati verso il “moderato” Di Maio alle scorse politiche.

 

Salvini vuol dare le carte

Ieri Salvini ha fatto una dichiarazione molto interessante, ambivalente.

Ha detto che il contratto di governo può essere “ritarato“, dando anche un’orizzonte temporale: “settembre 2020”.

Molti, leggo, la interpretano come una minaccia. Io non credo sia così. Penso che questa dichiarazione dica molto dei rapporti col Movimento e delle prospettive strategiche di Salvini.

Anzitutto, significa che c’è una carta in più da giocare prima che cada il governo. In caso di crisi, si può trovare un altro accordo. Probabile che dopo il voto europeo gli equilibri politici siano diversi, con un peso delle due forze più equilibrato rispetto al voto politico. Sul tavolo, insieme alla composizione del governo, Salvini mette anche il programma.

Secondo, è una rassicurazione più che una minaccia nei confronti del Movimento. Luigi Di Maio e colleghi temono una crisi di governo come la peste. Non terrebbero i gruppi parlamentari, pieno di deputati e senatori di prima nomina che non vogliono tornare al voto. In buona compagnia: nelle stesse condizioni ci sono quasi 600 parlamentari.

Salvini sa bene che Di Maio si venderà pure le mutande prima di rinunciare al governo.

Terzo: è una rassicurazione, quella di Salvini, anche verso il proprio elettorato, molto nervoso. Passata la finanziaria, vediamo di aggiustare quel che non va.

Infine, indicare il 2020, una data lontana, dimostra la volontà di tenere in piedi la legislatura. Nemmeno la Lega, che pure ha sondaggi favorevoli, ha voglia di spendere altri milioni di euro in una campagna elettorale, magari durante una recessione.

Beppe Grillo: la clava contro Roberta Lombardi

Lo scorso 1 dicembre c’è stata una mozione di sfiducia nei confronti di Nicola Zingaretti, presidente della regione Lazio.

La giunta si regge grazie all’appoggio esterno del Movimento 5 Stelle, che però non ha votato compatto e ha lasciato Zingaretti al suo posto.

Il giorno prima Luigi Di Maio, capo politico del Movimento, seguito da Beppe Grillo, ha invitato i consiglieri laziali a votare compatti la sfiducia per far cadere la giunta e portare la regione al voto.

Roberta Lombardi, capogruppo in consiglio regionale, aveva dato indicazioni diverse: uscire dall’aula per non far cadere Zingaretti, cui ha garantito una sorta di non sfiducia per governare. Non ha, peraltro, nascosto la sua seccatura per l’intervento esterno: “Grillo non si occupa di tematiche territoriali e mi chiedo chi lo abbia spinto a intervenire e cosa gli abbia detto. Per il futuro chiedo a Beppe e Luigi che qualsiasi cosa volessero sapere sul Lazio mi chiamassero“.

Chiaramente, i consiglieri regionali – inclusa Lombardi – non hanno alcuna intenzione di chiudere anzitempo la legislatura rinunciando al proprio ruolo, stipendio, lavoro. Da questa vicenda, però, possiamo ricavare altri due dati che ci permettono di capire meglio i rapporti di forza e i progetti a medio termine dei dirigenti romani e milanesi del partito.

Cerchiamo intanto di spiegare a Lombardi chi ha “spinto” Grillo a quelle dichiarazioni.

Come abbiamo spiegato in Supernova io e Nicola Biondo, Grillo non ha mai preso una decisione, né scritto un post, né avuto alcun ruolo autonomo. Ha sempre avuto e continua ad avere ghostwriter e suggeritori. All’inizio dell’anno ha lasciato Casaleggio Associati, che non gestisce più il suo Blog. Davide Casaleggio, però, attraverso l’associazione Rousseau e in accordo con Di Maio continua ad amministrare la comunicazione del Movimento. Quando Grillo parla del partito, dunque, lo fa su indicazione dei due diarchi: Di Maio e Casaleggio. I quali, evidentemente, sono interessati a far cadere la giunta Zingaretti. Perché?

Lo si capisce guardando ai sondaggi e agli altri segnali, piccoli e grandi, che arrivano dai territori.

Primo indizio: giorni fa, Giancarlo Cancelleri ha dichiarato di essere ben felice di fare alleanze post elettorali con la Lega in Sicilia.

Secondo indizio: alcune settimane prima, l’eurodeputato Marco Valli parlando con La Stampa aveva spiegato che ci sono tentativi e interlocuzioni per il nuovo gruppo europeo, ma è possibile anche un’alleanza con Salvini e Le Pen. Valli è subito dopo caduto in disgrazia ed è ora sospeso dal Movimento.

Terzo indizio: il Movimento ha rinunciato a tutti gli emendamenti, inclusi quelli dei fantomatici “dissidenti”, al decreto sicurezza di Salvini, che così è diventato legge.

Insomma, tutto sembra portare a concludere che l’intenzione dei dirigenti sia quello di proseguire sulla strada di una maggiore convergenza con la Lega, soprattutto in vista delle prossime Europee. A quel voto Salvini potrebbe arrivare in miglior salute e raggiungere se non sorpassare il Movimento. Subito dopo, in funzione del nuovo peso politico dei due alleati, si dovranno trovare nuovi equilibri.

Evidentemente, Di Maio vuole portare in dote qualche scalpo sul tavolo delle trattative, visto che non potrà più vantare l’egemonia elettorale.

La vicenda su Zingaretti, con Grillo usato come clava contro gli stessi consiglieri locali, rientra perfettamente in questa cornice.

 

La manina: cosa è successo davvero in quel Consiglio dei Ministri?

di Marco Canestrari e Nicola Biondo

Cosa sta succedendo davvero intorno al decreto fiscale? Chi ha fatto davvero litigare i viceministri Di Maio e Salvini?

Ieri Giorgetti, sottosegretario leghista alla Presidenza del Consiglio, rilascia un’intervista lasciando intendere che ci siano state “distrazioni” da parte dei 5 Stelle e che non conviene a Di Maio alzare i toni perché “scoprirà che la famosa “manina” è in casa loro”. Nel pomeriggio Laura Castelli, sottosegretaria M5s al tesoro, racconta a Repubblica: “tutti sappiamo cos’è successo in quella stanza” e aggiunge “non ci prendiamo in giro” senza però entrare nel dettaglio e ribadendo la contrarietà al condono.

Poco dopo, lo stesso Salvini durante una diretta Facebook assicura lealtà al governo, ma respinge con forza ogni accusa ricordando che durante quella riunione “Conte leggeva e Di Maio verbalizzava”.

L’impressione è che ormai tutti i protagonisti dell’incidente sul decreto fiscale abbiano capito com’è andata davvero ma, per imbarazzo reciproco, non lo possano ammettere pubblicamente.

Togliamo noi Di Maio, Salvini e Conte dall’imbarazzo e raccontiamo come sono andate le cose, così come abbiamo ricostruito anche grazie a fonti che nella stanze di quelle riunioni — il 15 ottobre — c’erano.

Lunedì 15 ottobre si riunisce il Consiglio dei Ministri che approva, tra le altre cose, il decreto fiscale. In preconsiglio e durante tutte le riunioni propedeutiche i testi vengono riletti, analizzati, limati articolo per articolo. Qualcuno — durante o dopo le riunioni — si accorge del problema sull’articolo nove, un passaggio molto tecnico, ma non dice nulla per molte ore. L’articolo passa: Conte legge, Di Maio scrive e verbalizza.

Il giorno dopo Di Maio si sta recando da Vespa per la registrazione di Porta a Porta e riceve una chiamata. L’interlocutore spiega che al Quirinale sta per arrivare un testo che contiene il condono, che Casalino è avvertito e che si può sfruttare mediaticamente questo fatto su Rai1. Chi parla è la stessa persona che aveva notato la norma, senza sollevare il problema nella sede opportuna. Viene concordato l’attacco: una manina, politica o tecnica, ha infilato il condono.

Di Maio in trasmissione da Vespa e, contemporaneamente, sulla sua pagina Facebook denuncia il “fatto gravissimo”. La Lega reagisce con compostezza: “Tutti eravamo d’accordo, l’abbiamo letto e riletto, nessuno ha sollevato obiezioni”.

Il caso monta, i toni si accendono. Proprio come accadde con il caso dell’impeachment a Mattarella, però, a sbraitare sono solo i Cinque Stelle mentre i Leghisti mantengono la calma.

Ieri, le interviste a Giorgetti e Castelli, che è noto non vadano molto d’accordo: la sottosegretaria è convinta che il leghista abbia una responsabilità nel fatto che non abbia ancora ricevuto deleghe da Tria.

Oggi ci sarà il Consiglio dei Ministri per risolvere la questione. Emergerà che non c’è stata alcuna manina: qualcuno nel Movimento ha dato un’informazione sbagliata a Di Maio, informazione che il vicepremier non ha verificato, fidandosi dell’interlocutore. Che però è la persona che avrebbe dovuto controllare i testi tecnici ed evitare proprio questo genere di problemi. Perché non l’ha fatto, cercando di capitalizzare l’informazione? E chi è?

La logica, e alcune fonti, portano proprio a Laura Castelli che ieri e oggi, nei corridoi dei palazzi romani, si diceva essere in grossa difficoltà. Qualcuno addirittura preconizzava una sua defenestrazione dal ministero del Tesoro: se c’è una cosa che Di Maio non sopporta, e non può permettersi, è rovinare il rapporto con Salvini che tutti sottolineano essere ottimo, personalmente.

“Ce l’avete messa voi lì, l’avete voluta voi. Se combina casini non è colpa nostra, dovete risolvere voi il problema. Io sono disposto a togliere qualcosa ma tu e io abbiamo un accordo e va rispettato”, avrebbe detto Matteo a Luigi in una telefonata dopo la puntata di Porta a Porta.

Il peggio deve ancora venire

Ho già spiegato perché, secondo me, non c’è il voto anticipato all’orizzonte, ma può essere utile tornare sull’argomento: l’illusione diffusa è che l’incapacità dei protagonisti del governo Salvini-Di Maio ne causerà presto il fallimento. Alle argomentazioni già esposte vorrei aggiungere altre considerazioni.

Poiché la politica è l’arte del possibile, non possiamo escludere che il governo cada domani. Ciò premesso, i governi non cadono quasi mai per una singola causa, come non stanno in piedi in funzione di un’unica circostanza; anche quando accade, le maggioranze possono pure variare ma senza che la legislatura termini anzitempo. Quando Matteo Renzi ha rassegnato le dimissioni si è velocemente insediato il governo Gentiloni (peraltro quasi identico al precedente) e il Parlamento si è trascinato fino alla sua scadenza naturale. Negli ultimi vent’anni è accaduto una sola volta che le camere fossero sciolte anticipatamente, nel 2008 alla caduta del governo Prodi. Allora, la maggioranza nata precaria saltò sì per un episodio — il ritiro della fiducia per motivi giudiziario-personali dell’allora ministro Mastella — ma dopo che l’opposizione di Berlusconi aveva fin da subito lavorato ai fianchi i pochi senatori indecisi, convinti (anche con metodi — diciamo — poco ortodossi) a far sfumare la legislatura. A parte questo, bisogna tornare a ventidue anni fa per trovare un altro voto anticipato, con la caduta del primo governo Berlusconi. È, dunque, un evento statisticamente raro.

Oggi non ci sono maggioranze parlamentari diverse da quella che regge il governo Conte. Anzi, ci sono alcune “riserve”: Fratelli d’Italia sta conducendo un’opposizione gentile, quasi affettuosa. Forza Italia, seppur all’opposizione, mantiene strettissimi rapporti con la Lega di Salvini, bravissimo — da politico navigato qual è — ad amministrare il proprio consenso popolare, il ruolo al governo e quello di guida dell’area di centrodestra, conducendo trattative nazionali, locali, europee e internazionali in maniera strutturata e — a modo suo — coerente. Indicativa la frase di Giorgetti pronunciata alla festa del Fatto Quotidiano: “Salvini sa quando fermarsi”. La domanda riguardava il pericolo di “stancare” l’elettorato a furia di continue provocazioni, ma la risposta sicura del sottosegretario delinea il profilo tutt’altro che ingenuo e inconsapevole del capo de-facto del governo.

I governi, dicevo, si reggono (e quindi cadono) su molteplici fattori. Come al gioco del tiro alla fune i tanti giocatori contribuiscono alla propria causa, così ci sono circostanze che tendono a prolungare l’esperienza di governo e altre che spingono a farla terminare. Le prime, al momento, sono molto più numerose e solide delle seconde.

Per riassumere quanto già scritto in precedenza, il 60% dei parlamentari è di prima nomina e aspetta il mese di settembre 2022, quando maturerà il diritto al trattamento pensionistico. Prima di quella data, la loro priorità sarà quella di evitare il voto. Il restante 40%, in buona parte, ha investito molti soldi nella campagna elettorale e ha la necessità di conservare il generoso stipendio per rientrare dei costi sostenuti.

Chi, nella maggioranza, ha ottenuto ruoli di governo — soprattutto nel Movimento 5 Stelle — sa bene che le condizioni che l’hanno portato in quell’ufficio sono diversamente ripetibili. Troppe cose sono andate bene: il risultato elettorale, la concomitante debolezza di Partito Democratico e Forza Italia, che hanno evitato ogni possibile alternativa e permesso a Salvini di formare un governo senza il proprio alleato, il consenso nel Paese, l’incapacità generalizzata di analisi della stampa. Pochi, tra quelli al governo, rinunceranno a posizioni così vantaggiose, anche politicamente.

Peraltro, tra i partiti rappresentati in Parlamento non c’è nessuno, soprattutto all’opposizione, che abbia interesse ad andare al voto. Forza Italia teme il consenso del proprio alleato Salvini; il Partito Democratico non ha ancora risolto la propria crisi interna. Salvini e il MoVimento sono al governo e, di base, non hanno interesse a spendere altro tempo e soldi per una nuova campagna elettorale che sarebbe dominata dalla retorica del fallimento del governo Conte.

La classe dirigente del Movimento, soprattutto, prima di far fallire questa esperienza cederà a qualsiasi richiesta della Lega. Sono loro, infatti, che hanno più da perdere da una fine anzitempo della legislatura, per via della nota regola dei due mandati e, soprattutto, perché Di Maio non è nelle condizioni, anche violando la norma, di poter garantire posti a nessuno nella prossima legislatura.

Ci sono, poi, importanti scadenze elettorali. Il prossimo anno le elezioni europee, i due successivi importanti elezioni amministrative e, soprattutto, all’orizzonte, nel febbraio del 2022, la partita per il Quirinale, vera occasione della vita per Salvini e Di Maio, ma anche per Berlusconi che mai, in 25 anni, si è trovato con una maggioranza non ostile in Parlamento nell’anno dell’elezione del Presidente della Repubblica. Giova ricordare ancora la scadenza del settembre 2022, obiettivo di quasi 600 parlamentari che matureranno quel mese il diritto alla pensione.

Infine, c’è un fattore ancor più determinante di quelli già descritti: le Camere le può sciogliere solo il Presidente Mattarella, il quale si è già dimostrato capace di esercitare senza timore il suo ruolo che gli impone di cercare ogni possibile maggioranza in Parlamento prima di indire il voto anticipato. Alla fine, sarà il Capo dello Stato a stabilire se ci sia o meno la necessità di terminare la legislatura.

I prossimi anni, dunque, la maggioranza si muoverà come l’Uomo Ragno: mirando alla scadenza successiva per spingersi alla fine della legislatura, nei primi mesi del 2023.

La prima tra queste scadenze è la loro prima manovra economica. Costruire una legge finanziaria è, di per sé, un processo complesso che coinvolge, pure questo, innumerevoli soggetti ed è influenzato da centinaia di fattori. L’esito di questo processo, quest’anno, ci darà molte indicazioni sulle capacità negoziali del Presidente Conte e dei due vicepresidenti Salvini e Di Maio e, in generale, sulla capacità di sopportare le tensioni interne ed esterne. Se la maggioranza dovesse approvare la manovra con successo e soddisfazione di tutti, avranno trovato un metodo di lavoro che potrà essere replicato i prossimi anni. Diversamente, è possibile anche la crisi di governo o di legislatura.

Attenzione però: anche nel caso estremo — sebbene remoto — di voto anticipato la situazione non cambierebbe molto. Nonostante tutto, manca nel Paese un’alternativa credibile a questa maggioranza. Non c’è nessuno, al momento, in grado di contrastare la propaganda, il consenso e la capacità di raccogliere voti di Lega e Movimento 5 Stelle. Ci troveremmo con un parlamento molto simile, forse ancor più dominato dai due contraenti l’attuale contratto di Governo che, comunque, eleggeranno il nuovo capo dello Stato.

Non illudiamoci: i prossimi anni assisteremo a un gioco delle parti interno alla maggioranza, soprattutto in occasione delle manovre finanziarie, utili solo a tenere alto il morale dei rispettivi elettorati, ben felici di governare insieme e quindi irritabili alla possibilità di un fallimento dell’esperienza di Conte. Non solo tra Lega e Movimento ma anche, e soprattutto, in seno al Movimento.

Non facciamoci nemmeno infinocchiare dalle false “tensioni interne” o dai nuovi presunti leader concorrenti di Di Maio. Il Movimento è stato molto criticato in passato, giustamente, perché appariva monolitico e dirigista. Lo è ancora, ma hanno capito che il 33% dei voti impone, almeno, una riverniciata all’immagine. Fingere un improbabile dibattito interno è funzionale ad accontentare la vasta gamma di elettori che sono riusciti a convincere lo scorso marzo, che necessariamente coprono un’ampia gamma di diverse sfumature rispetto alle sensibilità sui temi, toni, modalità di gestione del consenso, obiettivi. Tutti però, da Roberto Fico a Di Battista, sanno che la squadra funziona solo se, ciascuno nel proprio ruolo, tutti lavorano per vincere il gran premio perché solo così al traguardo ci saranno bonus per tutti. Tutti, in questo momento, stanno benissimo ciascuno nel proprio ruolo: Di Maio al governo, Fico alla Presidenza della Camera, Di Battista in giro per il mondo a cazzeggiare.

La propaganda, nei prossimi anni, avrà lo scopo di sostenere il governo, cercando di sottolineare le peculiarità del Movimento rispetto agli alleati, con qualche normale picco di polemica in occasione delle leggi di bilancio e delle scadenze elettorali. Gli attori avranno un ruolo assegnato per mantenere alta la tensione e soddisfare le porzioni di elettorato che fanno riferimento a questa o quella sensibilità.

L’appuntamento per il prossimo tagliando, superata la legge finanziaria, sarà la formazione dei gruppi al Parlamento Europeo.