La manina: cosa è successo davvero in quel Consiglio dei Ministri?

di Marco Canestrari e Nicola Biondo

Cosa sta succedendo davvero intorno al decreto fiscale? Chi ha fatto davvero litigare i viceministri Di Maio e Salvini?

Ieri Giorgetti, sottosegretario leghista alla Presidenza del Consiglio, rilascia un’intervista lasciando intendere che ci siano state “distrazioni” da parte dei 5 Stelle e che non conviene a Di Maio alzare i toni perché “scoprirà che la famosa “manina” è in casa loro”. Nel pomeriggio Laura Castelli, sottosegretaria M5s al tesoro, racconta a Repubblica: “tutti sappiamo cos’è successo in quella stanza” e aggiunge “non ci prendiamo in giro” senza però entrare nel dettaglio e ribadendo la contrarietà al condono.

Poco dopo, lo stesso Salvini durante una diretta Facebook assicura lealtà al governo, ma respinge con forza ogni accusa ricordando che durante quella riunione “Conte leggeva e Di Maio verbalizzava”.

L’impressione è che ormai tutti i protagonisti dell’incidente sul decreto fiscale abbiano capito com’è andata davvero ma, per imbarazzo reciproco, non lo possano ammettere pubblicamente.

Togliamo noi Di Maio, Salvini e Conte dall’imbarazzo e raccontiamo come sono andate le cose, così come abbiamo ricostruito anche grazie a fonti che nella stanze di quelle riunioni — il 15 ottobre — c’erano.

Lunedì 15 ottobre si riunisce il Consiglio dei Ministri che approva, tra le altre cose, il decreto fiscale. In preconsiglio e durante tutte le riunioni propedeutiche i testi vengono riletti, analizzati, limati articolo per articolo. Qualcuno — durante o dopo le riunioni — si accorge del problema sull’articolo nove, un passaggio molto tecnico, ma non dice nulla per molte ore. L’articolo passa: Conte legge, Di Maio scrive e verbalizza.

Il giorno dopo Di Maio si sta recando da Vespa per la registrazione di Porta a Porta e riceve una chiamata. L’interlocutore spiega che al Quirinale sta per arrivare un testo che contiene il condono, che Casalino è avvertito e che si può sfruttare mediaticamente questo fatto su Rai1. Chi parla è la stessa persona che aveva notato la norma, senza sollevare il problema nella sede opportuna. Viene concordato l’attacco: una manina, politica o tecnica, ha infilato il condono.

Di Maio in trasmissione da Vespa e, contemporaneamente, sulla sua pagina Facebook denuncia il “fatto gravissimo”. La Lega reagisce con compostezza: “Tutti eravamo d’accordo, l’abbiamo letto e riletto, nessuno ha sollevato obiezioni”.

Il caso monta, i toni si accendono. Proprio come accadde con il caso dell’impeachment a Mattarella, però, a sbraitare sono solo i Cinque Stelle mentre i Leghisti mantengono la calma.

Ieri, le interviste a Giorgetti e Castelli, che è noto non vadano molto d’accordo: la sottosegretaria è convinta che il leghista abbia una responsabilità nel fatto che non abbia ancora ricevuto deleghe da Tria.

Oggi ci sarà il Consiglio dei Ministri per risolvere la questione. Emergerà che non c’è stata alcuna manina: qualcuno nel Movimento ha dato un’informazione sbagliata a Di Maio, informazione che il vicepremier non ha verificato, fidandosi dell’interlocutore. Che però è la persona che avrebbe dovuto controllare i testi tecnici ed evitare proprio questo genere di problemi. Perché non l’ha fatto, cercando di capitalizzare l’informazione? E chi è?

La logica, e alcune fonti, portano proprio a Laura Castelli che ieri e oggi, nei corridoi dei palazzi romani, si diceva essere in grossa difficoltà. Qualcuno addirittura preconizzava una sua defenestrazione dal ministero del Tesoro: se c’è una cosa che Di Maio non sopporta, e non può permettersi, è rovinare il rapporto con Salvini che tutti sottolineano essere ottimo, personalmente.

“Ce l’avete messa voi lì, l’avete voluta voi. Se combina casini non è colpa nostra, dovete risolvere voi il problema. Io sono disposto a togliere qualcosa ma tu e io abbiamo un accordo e va rispettato”, avrebbe detto Matteo a Luigi in una telefonata dopo la puntata di Porta a Porta.

Il peggio deve ancora venire

Ho già spiegato perché, secondo me, non c’è il voto anticipato all’orizzonte, ma può essere utile tornare sull’argomento: l’illusione diffusa è che l’incapacità dei protagonisti del governo Salvini-Di Maio ne causerà presto il fallimento. Alle argomentazioni già esposte vorrei aggiungere altre considerazioni.

Poiché la politica è l’arte del possibile, non possiamo escludere che il governo cada domani. Ciò premesso, i governi non cadono quasi mai per una singola causa, come non stanno in piedi in funzione di un’unica circostanza; anche quando accade, le maggioranze possono pure variare ma senza che la legislatura termini anzitempo. Quando Matteo Renzi ha rassegnato le dimissioni si è velocemente insediato il governo Gentiloni (peraltro quasi identico al precedente) e il Parlamento si è trascinato fino alla sua scadenza naturale. Negli ultimi vent’anni è accaduto una sola volta che le camere fossero sciolte anticipatamente, nel 2008 alla caduta del governo Prodi. Allora, la maggioranza nata precaria saltò sì per un episodio — il ritiro della fiducia per motivi giudiziario-personali dell’allora ministro Mastella — ma dopo che l’opposizione di Berlusconi aveva fin da subito lavorato ai fianchi i pochi senatori indecisi, convinti (anche con metodi — diciamo — poco ortodossi) a far sfumare la legislatura. A parte questo, bisogna tornare a ventidue anni fa per trovare un altro voto anticipato, con la caduta del primo governo Berlusconi. È, dunque, un evento statisticamente raro.

Oggi non ci sono maggioranze parlamentari diverse da quella che regge il governo Conte. Anzi, ci sono alcune “riserve”: Fratelli d’Italia sta conducendo un’opposizione gentile, quasi affettuosa. Forza Italia, seppur all’opposizione, mantiene strettissimi rapporti con la Lega di Salvini, bravissimo — da politico navigato qual è — ad amministrare il proprio consenso popolare, il ruolo al governo e quello di guida dell’area di centrodestra, conducendo trattative nazionali, locali, europee e internazionali in maniera strutturata e — a modo suo — coerente. Indicativa la frase di Giorgetti pronunciata alla festa del Fatto Quotidiano: “Salvini sa quando fermarsi”. La domanda riguardava il pericolo di “stancare” l’elettorato a furia di continue provocazioni, ma la risposta sicura del sottosegretario delinea il profilo tutt’altro che ingenuo e inconsapevole del capo de-facto del governo.

I governi, dicevo, si reggono (e quindi cadono) su molteplici fattori. Come al gioco del tiro alla fune i tanti giocatori contribuiscono alla propria causa, così ci sono circostanze che tendono a prolungare l’esperienza di governo e altre che spingono a farla terminare. Le prime, al momento, sono molto più numerose e solide delle seconde.

Per riassumere quanto già scritto in precedenza, il 60% dei parlamentari è di prima nomina e aspetta il mese di settembre 2022, quando maturerà il diritto al trattamento pensionistico. Prima di quella data, la loro priorità sarà quella di evitare il voto. Il restante 40%, in buona parte, ha investito molti soldi nella campagna elettorale e ha la necessità di conservare il generoso stipendio per rientrare dei costi sostenuti.

Chi, nella maggioranza, ha ottenuto ruoli di governo — soprattutto nel Movimento 5 Stelle — sa bene che le condizioni che l’hanno portato in quell’ufficio sono diversamente ripetibili. Troppe cose sono andate bene: il risultato elettorale, la concomitante debolezza di Partito Democratico e Forza Italia, che hanno evitato ogni possibile alternativa e permesso a Salvini di formare un governo senza il proprio alleato, il consenso nel Paese, l’incapacità generalizzata di analisi della stampa. Pochi, tra quelli al governo, rinunceranno a posizioni così vantaggiose, anche politicamente.

Peraltro, tra i partiti rappresentati in Parlamento non c’è nessuno, soprattutto all’opposizione, che abbia interesse ad andare al voto. Forza Italia teme il consenso del proprio alleato Salvini; il Partito Democratico non ha ancora risolto la propria crisi interna. Salvini e il MoVimento sono al governo e, di base, non hanno interesse a spendere altro tempo e soldi per una nuova campagna elettorale che sarebbe dominata dalla retorica del fallimento del governo Conte.

La classe dirigente del Movimento, soprattutto, prima di far fallire questa esperienza cederà a qualsiasi richiesta della Lega. Sono loro, infatti, che hanno più da perdere da una fine anzitempo della legislatura, per via della nota regola dei due mandati e, soprattutto, perché Di Maio non è nelle condizioni, anche violando la norma, di poter garantire posti a nessuno nella prossima legislatura.

Ci sono, poi, importanti scadenze elettorali. Il prossimo anno le elezioni europee, i due successivi importanti elezioni amministrative e, soprattutto, all’orizzonte, nel febbraio del 2022, la partita per il Quirinale, vera occasione della vita per Salvini e Di Maio, ma anche per Berlusconi che mai, in 25 anni, si è trovato con una maggioranza non ostile in Parlamento nell’anno dell’elezione del Presidente della Repubblica. Giova ricordare ancora la scadenza del settembre 2022, obiettivo di quasi 600 parlamentari che matureranno quel mese il diritto alla pensione.

Infine, c’è un fattore ancor più determinante di quelli già descritti: le Camere le può sciogliere solo il Presidente Mattarella, il quale si è già dimostrato capace di esercitare senza timore il suo ruolo che gli impone di cercare ogni possibile maggioranza in Parlamento prima di indire il voto anticipato. Alla fine, sarà il Capo dello Stato a stabilire se ci sia o meno la necessità di terminare la legislatura.

I prossimi anni, dunque, la maggioranza si muoverà come l’Uomo Ragno: mirando alla scadenza successiva per spingersi alla fine della legislatura, nei primi mesi del 2023.

La prima tra queste scadenze è la loro prima manovra economica. Costruire una legge finanziaria è, di per sé, un processo complesso che coinvolge, pure questo, innumerevoli soggetti ed è influenzato da centinaia di fattori. L’esito di questo processo, quest’anno, ci darà molte indicazioni sulle capacità negoziali del Presidente Conte e dei due vicepresidenti Salvini e Di Maio e, in generale, sulla capacità di sopportare le tensioni interne ed esterne. Se la maggioranza dovesse approvare la manovra con successo e soddisfazione di tutti, avranno trovato un metodo di lavoro che potrà essere replicato i prossimi anni. Diversamente, è possibile anche la crisi di governo o di legislatura.

Attenzione però: anche nel caso estremo — sebbene remoto — di voto anticipato la situazione non cambierebbe molto. Nonostante tutto, manca nel Paese un’alternativa credibile a questa maggioranza. Non c’è nessuno, al momento, in grado di contrastare la propaganda, il consenso e la capacità di raccogliere voti di Lega e Movimento 5 Stelle. Ci troveremmo con un parlamento molto simile, forse ancor più dominato dai due contraenti l’attuale contratto di Governo che, comunque, eleggeranno il nuovo capo dello Stato.

Non illudiamoci: i prossimi anni assisteremo a un gioco delle parti interno alla maggioranza, soprattutto in occasione delle manovre finanziarie, utili solo a tenere alto il morale dei rispettivi elettorati, ben felici di governare insieme e quindi irritabili alla possibilità di un fallimento dell’esperienza di Conte. Non solo tra Lega e Movimento ma anche, e soprattutto, in seno al Movimento.

Non facciamoci nemmeno infinocchiare dalle false “tensioni interne” o dai nuovi presunti leader concorrenti di Di Maio. Il Movimento è stato molto criticato in passato, giustamente, perché appariva monolitico e dirigista. Lo è ancora, ma hanno capito che il 33% dei voti impone, almeno, una riverniciata all’immagine. Fingere un improbabile dibattito interno è funzionale ad accontentare la vasta gamma di elettori che sono riusciti a convincere lo scorso marzo, che necessariamente coprono un’ampia gamma di diverse sfumature rispetto alle sensibilità sui temi, toni, modalità di gestione del consenso, obiettivi. Tutti però, da Roberto Fico a Di Battista, sanno che la squadra funziona solo se, ciascuno nel proprio ruolo, tutti lavorano per vincere il gran premio perché solo così al traguardo ci saranno bonus per tutti. Tutti, in questo momento, stanno benissimo ciascuno nel proprio ruolo: Di Maio al governo, Fico alla Presidenza della Camera, Di Battista in giro per il mondo a cazzeggiare.

La propaganda, nei prossimi anni, avrà lo scopo di sostenere il governo, cercando di sottolineare le peculiarità del Movimento rispetto agli alleati, con qualche normale picco di polemica in occasione delle leggi di bilancio e delle scadenze elettorali. Gli attori avranno un ruolo assegnato per mantenere alta la tensione e soddisfare le porzioni di elettorato che fanno riferimento a questa o quella sensibilità.

L’appuntamento per il prossimo tagliando, superata la legge finanziaria, sarà la formazione dei gruppi al Parlamento Europeo.

Quanto durerà la bromance gialloverde?

Ho lanciato un sondaggione su Twitter per capire il clima nella mia filter-bubble sulla durata del governo. Il risultato non mi ha stupito affatto: oltre la metà pensa che il governo cadrà dopo le europee: verosimilmente rappresenta niente più della speranza di chi ha risposto. Speranza condivisibile, ma temo illusoria.

Non so quanto durerà Conte, ma gli interessi dei partiti di governo e dei rispettivi gerarchi sono più numerosi e profondi di quello che sembrano. Non lasciatevi ingannare dalle pavide uscite del presidente della Camera Roberto Fico: dei protagonisti della sua tentata rivolta non c’è più traccia. La più esposta, Laura Castelli, fonte primaria del nostro libro Supernova, ha cercato — senza successo — di ottenere un ministero, ma il passaggio nelle truppe del ragazzino di Pomigliano le ha comunque fruttato un sottosegretariato. Altri, penso a Dario Tamburrano che non credo sia felice nel vedere 177 persone sequestrate su una nostra nave militare, non dicono una sola parola su quanto sta avvenendo. Le europee sono vicine.

Ci sono fattori storici, politici, economici e umani che rendono improbabile una prematura rescissione del contratto di governo. Vediamo quali.

I fattori storici

In questo Parlamento e nel Paese non c’è una maggioranza diversa da quella attuale. La destra alleata della Lega negli enti locali è ormai quasi inesistente a livello nazionale; a sinistra c’è aria di smobilitazione. Se per ipotesi cadesse il governo non ci sarebbe verosimilmente altro da fare che andare al voto, con risultati non dissimili a quelli di marzo.

I fattori politici

Ma lo stesso voto anticipato è un’eventualità assai remota. Questa legislatura è caratterizzata dal record storico di parlamentari di prima nomina, molti dei quali veri e propri miracolati che, inseriti come riempilista, non si aspettavano di passare in una notte da un reddito spesso inesistente a 150.000€ all’anno.

Allo stesso modo, molti membri del governo capiscono che una congiunzione astrale come quella di quest’anno difficilmente si ripeterà. La Lega è riuscita a smarcarsi da Berlusconi senza perdere le regioni; il M5S ha ottenuto un risultato ben oltre le attese che gli ha permesso, tra l’altro, di sedare i malumori interni distribuendo cariche nelle commissioni e perfino alla Presidenza della Camera; premiando, contemporaneamente, tutti i membri del clan che ha scalato il Partito. Difficile il bis.

Se, sempre per ipotesi, si tornasse al voto i rapporti di forza con la Lega sarebbero probabilmente invertiti: prima di rischiare questo, Di Maio concederà a Salvini pure le mutande.

I ruoli che si sono distribuiti nell’alleanza consentono sia alla Lega che al MoVimento 5 Stelle di perseverare nelle rispettive propagande, che non sono affatto incompatibili: v’è accordo su tutto, ma Salvini va forte sulle orme di Telesio Interlandi mentre Di Maio è un utile soggetto di ricerca per la dimostrazione dell’effetto Dunning-Kruger. Quando gli ricapita?

I fattori economici

Abbiamo già accennato al fatto che un buon 60% di parlamentari sta incassando il biglietto vincente della lotteria. C’è un’altra persona con un biglietto da 10 milioni di euro da riscuotere a rate: Davide Casaleggio. Tramite la sua Associazione Rousseau intasca ogni mese 300 euro da ciascun parlamentare, più altre somme variabili a seconda della carica dagli altri eletti del MoVimento 5 Stelle. Inoltre, due dei suoi tre soci, Bugani e Dettori, hanno un comodo stipendio pubblico, il che gli consente forse di risparmiare qualcosa in casa Rousseau oltre ad avere accesso ai profittevoli salotti romani (remember Lanzalone?). Come sia possibile tutto questo l’abbiamo spiegato in passato e ci torneremo anche in futuro, ma è chiaro che Junior spenderà tutta la sua — molta — influenza per mantenere questi privilegi.

I fattori umani

Infine, non dobbiamo dimenticare che tutti i protagonisti di questa vicenda hanno davvero l’occasione irripetibile della vita. Salvini e Di Maio non hanno lavorato un giorno in vita loro; Roberto Fico si arrabattava per campare; Di Battista sta viaggiando il mondo coi soldi nostri e quelli di Berlusconi, facendosi pure pagare dal Fatto Quotidiano (che è, oggettivamente, un capolavoro commerciale degno della Chicago degli anni Venti).

Non si può, francamente, pretendere che queste persone mollino tutto solo perché sono degli incapaci che stanno mandano il paese alla rovina. Sarebbe davvero chiedere loro troppo.

Perdi e fuggi

Perché Di Maio rifiuta sempre i confronti

Foto da Today.it

Luigi Di Maio ha deciso di annullare il confronto TV con Renzi chiesto prima delle elezioni regionali siciliane, sostenendo che il segretario del PD “non è più un interlocutore” avendo perso la tornata elettorale.

Non ci sono dubbi sul fatto che la mossa fosse studiata e finalizzata a scopi di comunicazione — come spiega bene David Puente — ma il motivo dell’annullamento non è quello che è stato dichiarato. Si sapeva che il PD non avrebbe vinto in Sicilia, quindi le opzioni erano la vittoria di Cancelleri o la sua sconfitta. Nel primo caso, Di Maio avrebbe avuto il vantaggio del vincitore nel confronto, se mai avesse mantenuto la parola data; adesso può dire, pur avendo perso, di aver comunque fatto (molto) meglio di Renzi e non considerare più utile un confronto con lui.

Il motivo della fuga di Di Maio, quindi, non è la sconfitta di Renzi ma la propria, che rappresenterà presto un problema, come abbiamo già spiegato.

La tecnica di comunicazione la conosco bene: quando lavoravo in Casaleggio Associati e Di Pietro era cliente dell’azienda, capitava di perdere qualche elezione. Ricorda Puente, che era il mio collega che si occupava più degli altri di Italia dei Valori, che in momenti di “crisi” Gianroberto Casaleggio studiava una strategia per veicolare in ogni caso messaggi positivi. Casaleggio, infatti, considerava la comunicazione l’unico fine delle posizioni politiche che dovevano essere assunte: ricordiamo, ad esempio, il caso dell’abolizione del reato di clandestinità.

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In Supernova — Com’è stato ucciso il MoVimento 5 Stelle raccontiamo l’episodio: nel giro di poche ore il Blog di Grillo pubblica ben tre post in cui sostiene, di fatto, che la politica del MoVimento non deve essere finalizzata all’affrontare e risolvere problemi ma in relazione all’efficacia comunicativa ed elettorale. Supernova è disponibile su Amazon, Google Play, iBooks, IBS, e Kobo.

Così, si può puntare tutto sulla vittoria in Sicilia dicendo che da questa dipendano le sorti del voto nazionale, ma quando si perde si può comunque raccontare di aver aumentato i voti. Una “narrazione”, come si usa dire oggi, che è dunque sempre falsa per definizione.

Alla lunga, però, soprattutto se il MoVimento dovesse vincere le elezioni, questa tecnica o non non funzionerà più o si rivelerà un boomerang. Distorcere sistematicamente la realtà a proprio vantaggio comporta delle controindicazioni, la più deleteria delle quali è la perdita di credibilità.

Un atteggiamento simile a quello avuto col segretario del Partito Democratico, infatti, non si applica a una vertenza sindacale o una trattativa intergovernativa: nel mondo reale delle relazioni politiche e diplomatiche le monete di scambio che hanno più valore sono la credibilità e l’affidabilità, senza le quali non si possono ottenere risultati.

Di Maio, con questo episodio, ha dimostrato di non voler essere riconosciuto come credibile e affidabile ma — anche grazie alla complicità di Renzi che è caduto nella trappola — cinico e furbo. Qualità che aiutano a raccogliere voti e compilare rendiconti eccentrici dei propri rimborsi spese, ma non a costruire l’immagine di un capo di governo credibile.


Io e Nicola Biondo abbiamo scritto come nasce, cresce e muta il MoVimento 5 Stelle in Supernova — Com’è stato ucciso il MoVimento 5 Stelle. Eravamo presenti, dal 2007 al 2014 lì dove le cose succedevano, dlla creazione all’arrivo in Parlamento del M5S: in questo libroraccontiamo la storia di come il sogno di Gianroberto Casaleggio sia diventato un pericoloso inganno.

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I destini incrociati di Cancelleri e Di Maio

Perché le elezioni siciliane sono più importanti di quel che sembri

Giancarlo Cancelleri

Il più grande problema del MoVimento 5 Stelle è la sua dipendenza dai leader. Gianroberto Casaleggio chiamava “capopanza” i leader locali e li considerava un pericolo: voleva infatti un partito “leaderless”, senza correnti né capicorrente perché temeva che la costruzione del potere e dell’influenza dei singoli potesse prevalere sugli obiettivi comuni e sui programmi e perché, soprattutto, voleva che i voti “appartenessero” al brand e non alle persone.

In Supernova abbiamo raccontato perché Casaleggio non volesse leadership nel MoVimento. Leggi tutta la storia su Supernova — Com’è stato ucciso il MoVimento 5 Stelle, disponibile su Amazon, Google Play, iBooks, IBS, e Kobo.

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La missione è, finora, indubbiamente fallita: ovunque ci siano state espulsioni o defezioni spontanee importanti, il MoVimento si è disgregato nel volgere di una sola elezione.

In Emilia Romagna, dove Giovanni Favia aveva guidato l’ingresso del M5s a Bologna e in Regione, nel capoluogo commissariato da Bugani il partito si è fermato al 16,6%.

A Parma, dopo l’addio di Pizzarotti, è crollato sotto il 3%.

A Palermo, dove MeetUp e MoVimento facevano riferimento al deputato ed ex candidato sindaco Riccardo Nuti, finito in disgrazia e sospeso per la brutta vicenda delle firme “false”, nulla hanno potuto i “ragazzi meravigliosi” contro il Sindaco a Vita Leoluca Orlando.

La causa è una sola: la regola dei due mandati che impone al massimo due candidature per ciascuno. Sia a livello locale che nazionale si crea una dinamica per cui gli attivisti tendono a concentrare energie e risorse a costruire la vittoria del candidato più promettente, limitando la dialettica politica al periodo che precede la sua prima elezione. Il candidato alla carica più importante diventa il capo del gruppo eletto all’opposizione e il candidato naturale alla tornata elettorale seguente, l’ultima a sua disposizione e quella in cui tutti gli attivisti impiegheranno le migliori energie.

Finora, dove il candidato ha vinto e governa il MoVimento regge. Dove il leader locale perde l’ultima elezione utile, il MoVimento sparisce.

Le elezioni in Sicilia hanno quindi un significato importantissimo in ottica nazionale perché i due leader, Giancarlo Cancelleri e Luigi Di Maio, sono nella stessa condizione: entrambi alla seconda candidatura, entrambi capi delle rispettive correnti, entrambi alle prese con le elezioni più importanti del MoVimento. Di Maio, infatti, si sta spendendo come mai prima per vincere le elezioni sull’isola: sa che il suo destino è legato a doppio filo a quello di Giancarlo e che entrambi si giocano il tutto per tutto.


Io e Nicola Biondo abbiamo scritto come nasce, cresce e muta il MoVimento 5 Stelle in Supernova — Com’è stato ucciso il MoVimento 5 Stelle. Eravamo stretti collaboratori di Gianroberto Casaleggio; eravamo, dal 2007 al 2014, lì dove le cose succedevano: nello studio di Milano, dove il M5S è nato, e nell’ufficio Comunicazione della Camera. In questo libro raccontiamo la storia di come il sogno di Gianroberto Casaleggio sia diventato un pericoloso inganno.

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Cosa c’entra il MoVimento 5 Stelle con la Catalogna?

Qual è la posizione di Luigi Di Maio e del MoVimento 5 Stelle sull’indipendenza della Catalogna? La domanda sembra riguardare una questione lontana e di relativa importanza, ma non è così per almeno due motivi.

Quello più scontato è la questione della politica estera. Abbiamo già parlato del rapporto ambiguo col regime di Putin, che cambia radicalmente nel 2014 senza alcuna spiegazione, passando dalla denuncia degli atteggiamenti dello Zar agli incontri più o meno conosciuti coi suoi gerarchi.

Il fatto è che scegliere da che parte stare rispetto alle grandi questioni internazionali rischia di infastidire una parte dell’elettorato: l’immagine dell’intero partito cambierebbe radicalmente se Di Maio dichiarasse, ad esempio, come la pensa sulla questione isreaelo-palestinese. Perciò, a tavolino, fin dal 2007 si decise di non affrontare affatto questi problemi, non essendoci una via che permettesse di massimizzare il consenso.

L’altro motivo per cui sarebbe importante sapere cosa pensano tra Milano, Genova e Pomigliano delle spinte indipendentiste catalane è che si capirebbe anche come intendono condurre la campagna elettorale. Il modello è sempre Rajoy — come ha dichiarato il capo poche settimane fa — , che sta cercando di impedire con ogni mezzo, anche violento, l’indipendenza della regione spagnola, oppure Gianfranco Miglio?

Miglio è stato a lungo l’ideologo della Lega Nord: teorizzava, per l’Italia, la necessità se non di tornare agli stati preunitari almeno a una federazione di tre macroregioni. La visione era ampiamente condivisa da Gianroberto Casaleggio e Beppe Grillo, che infatti pubblicano un post in tal senso a marzo 2014.

In Supernova — Com’è stato ucciso il MoVimento 5 Stelle raccontiamo questo episodio, importante perché nemmeno il capo della Comunicazione alla Camera, uno degli autori del libro, venne a sapere chi fosse l’autore:

Il resto è slogan, vendita di sogni a buon mercato.

E se non è un sogno ricevere soldi senza lavorare…

Per scalare il mercato politico della paura e dell’ignoranza, il marketing del MoVimento ha fatto per anni da volano alle posizioni più antiscientifiche e antistoriche. Nel marzo 2014 sul Blog qualcuno scrive “che l’Italia non ha più motivo di esistere e va divisa in tre…”. In nome di quale analisi, di quale dibattito? Nessuno.

La verità è che verrà presa una posizione — si fa per dire — quando si capirà l’aria che tira in Italia. Il 22 ottobre ci sarà un referendum “per l’autonomia” in Lombardia e in Veneto: l’esito sarà determinante per l’agenda della campagna elettorale della primavera 2018. Vedremo se Di Maio sceglierà una posizione europeista, nazionalista, separatista o, più probabilmente, opportunista.

La guerra di Fico

“E mentre gli usi questa premura quello si volta, ti vede, ha paura ed imbracciata l’artiglieria non ti ricambia la cortesia”

Così cantava Fabrizio De André ne “La guerra di Piero”. Quella di Roberto Fico contro i nuovi assetti del MoVimento, iniziata molto tempo fa, forse è destinata a finire nello stesso modo.

Sono sempre finiti male tutti i tentativi di animare un dibattito interno al MoVimento 5 Stelle, nonostante siano state provate diverse “tecniche”.

Ha probabilmente ragione Antonino Monteleone che, su Facebook, ha notato come l’attacco a Bruno Vespa (“ha un contratto da artista, non segua la campagna elettorale”) possa essere letto come uno sgambetto a Di Maio, che dagli studi di Porta a Porta raggiungerebbe un pubblico molto specifico, moderato, tendenzialmente di destra, importantissimo per vincere le elezioni.

Questo spiega il tipo di (vecchissima) tattica che forse sta adottando Fico: il logoramento. È curioso: è quella che hanno solitamente usato proprio i dirigenti del partito contro i “dissidenti” eccellenti. Prima con Giovanni Favia, a cui Casaleggio negò il saluto per due anni; poi con Federico Pizzarotti, sindaco di Parma, a cui Di Maio — che era pure responsabile degli enti locali del partito — non volle concedere mai un incontro. Una lenta ma costante pressione per costringere il malcapitato a commettere un errore o a lasciare la comunità politica.

Difficile, però, che questa strategia sia vincente. Primo perché gli attivisti, che oggi sono solo fan, e gli elettori M5S sono stati abituati a non tollerare gli scontri interni; secondo perché Fico ha già avuto la sua occasione e non l’ha sfruttata. Fu a fine 2016, poco prima dell’incontro di Palermo. In quel momento la popolarità di Di Maio era ai minimi storici, a causa della famosa mail “non capita” sul caso dell’assessore Muraro a Roma e il capo della vigilanza Rai aveva dalla sua parte quasi tutto il gruppo parlamentare, che aspettava solo una guida (o almeno un capro espiatorio, nel caso si mettesse male) per colpire il conterraneo. Ma non lo fece.

Ora è troppo tardi: tutti i suoi più fidati alleati sono saltati già s.ul carro del vincitore, lasciandolo isolato e Di Maio, con l’aiuto di Davide Casaleggio, si è preso il MoVimento.

“Cadesti a terra senza un lamento e ti accorgesti in un solo momento che il tempo non ti sarebbe bastato a chieder perdono per ogni peccato”

Il MoVimento, i soldi, il diritto al lavoro: tre domande a Di Maio

Dimentichiamoci per un attimo dei problemi di sicurezza di Rousseau, di quelli della giunta Raggi, dei malumori del MoVimento nei confronti di Di Maio e trattiamo quest’ultimo come il Capo Politico del primo partito del Paese.

C’è una vicenda che riguarda il diritto del lavoro, un parlamentare del MoVimento, Paolo Bernini, e un suo ex collaboratore, Lorenzo Andraghetti.

Andraghetti viene licenziato da Bernini, quindi gli fa causa e la vince: il giudice stabilisce l’ammontare del risarcimento di 70.000 euro. Bernini non solo non paga, disobbedendo a una sentenza, ma si avvale di una norma che stabilisce l’impignorabilità dei conti correnti dei parlamentari; norma che lo stesso MoVimento vuole abolire.

Rivolgo quindi tre domande al Capo Politico del MoVimento Luigi Di Maio:

  1. Non ritiene che le sentenze, soprattutto quelle sul diritto al lavoro, vadano sempre rispettate?
  2. Non ritiene incompatibile col MoVimento un parlamentare che, per non rispettare la sentenza e non pagare il dovuto, si avvalga di un privilegio riservato a deputati e senatori?
  3. Ha intenzione di prendere qualche iniziativa nei confronti del suo collega Bernini per indurlo a rispettare la sentenza o, in caso si opponesse, a lasciare il MoVimento 5 Stelle?

Raggi e Di Maio: stessi guai, stesso destino

Perché il MoVimento minimizza così sfacciatamente i guai giudiziari di Virginia Raggi? Perché Raggi è legata a doppio filo a Luigi Di Maio: per lei si è speso senza riserve fuori e dentro il partito, prima e dopo le elezioni.

Per lei, ma anche per lui, com’è noto, sono già state applicate impensabili deroghe allo Statuto che, teoricamente, vieta di candidare indagati e impone loro le dimissioni qualora si fosse già in carica.

L’altro grande sponsor di Raggi è Luigi Di Maio. Nella notte della vittoria, a seguirla come un’ombra è il suo capo staff Vincenzo Spadafora: Raggi in pochi giorni piazza come assessori al Campidoglio due suoi stretti ex collaboratori. Per Luigi il successo di Raggi è anche il suo trampolino di lancio verso Palazzo Chigi.

È a Luigi che Raggi si rivolge nei momenti più critici: è su di lui che si è appoggiata per difendere sia Muraro che Marra, lo ha convinto a proteggerla mentre mollava il tecnico Minenna, l’ha aiutata nel puntellare la sua disastrosa immagine.

Per lei sono stati cambiati i parametri morali del MoVimento: mentre prima qualcuno diceva che “ai politici non va applicata la presunzione di innocenza… Per me se c’è un dubbio non c’è alcun dubbio”, oggi che è indagata per abuso d’ufficio (il 28 settembre 2017 è stata chiesta l’archiviazione per questo reato e il rinvio a giudizio per falso, nda) il MoVimento ha inaugurato il garantismo a due velocità: veloce e spietato con gli avversari, dolce e pieno di riguardi con i suoi esponenti. E su di lei è stato disegnato un “nuovo codice morale” che fa entrare il MoVimento nel club dei partiti. Nonostante le grane giudiziarie, e le evidenti colpe politiche, non si deve dimettere.

Il senso di Di Maio per il potere

Vi ricordate il Direttorio del MoVimento 5 Stelle? Era quell’organo istituito da Grillo e Casaleggio all’indomani della sconfitta alle elezioni europee del 2014 per coordinare il M5S. Grillo era “un po’ stanchino”, aveva bisogno di aiuto, così con un post sul Blog diede a cinque persone, tra cui Luigi Di Maio, l’incarico di coordinare le attività del partito.

Difeso a spada tratta dai cinque come organo informale per tenere unito il MoVimento e aiutare i fondatori nella sua gestione, il Direttorio venne sciolto meno di due anni dopo e l’unico referente di Milano e Genova diventò Luigi.

Oggi, dopo la nomina di Di Maio a capo politico per le prossime elezioni, nel gruppo parlamentare si è ricominciato a parlare della necessità di scelte “collegiali”, di un mini-direttorio. Il Candidato ha stroncato subito l’idea: “non serve”. Perché ha cambiato opinione così nettamente?

Scordate tutto quello che sapete e avete letto fin’ora. Il Direttorio fu, in realtà, strumentale alla scalata di Di Maio al vertice; fu imposto ai due garanti dopo mesi di pressioni, nel momento di massima debolezza di Casaleggio a causa della sua malattia. Ora che le redini del MoVimento sono saldamente nelle sue mani, perché mai dovrebbe condividere il potere con i suoi avversari?

Scrive uno dei futuri membri del Direttorio:

“È evidente che Pizzarotti & company stanno tentando la scalata. È altrettanto evidente che noi dobbiamo fare una sola cosa: anticiparli e disinnescarli con le nostre qualità… Alcuni parlamentari, manovrati da Parma, stanno pensando ad azioni che, seppur destinate al fallimento, ci continueranno a logorare per i prossimi mesi”

Viene poi proposta la costituzione di una “squadra di referenti su singole materie” che sarà coordinata da una persona fidata:

E sarà Luigi Di Maio, la persona che ha più capacità (molto ma molte più di me) nel portare a termine questo compito.

Nel libro trovate anche la rabbiosa risposta dei fondatori, per nulla entusiasti di mandare in soffitta il Non Statuto, che vietava esplicitamente la creazione di un coordinamento o una segreteria.

Sarà la prima di decine di violazioni, piccole e grandi, che cambieranno pelle al MoVimento, rendendolo uno strumento nelle mani di pochi, scaltri carrieristi a Cinque Stelle.