Qualche giorno fa spiegavo come nel Movimento i dissidenti non esistano. Sono una categoria che funzionava la scorsa legislatura, quando all’inizio i parlamentari nemmeno si conoscevano. Casaleggio all’epoca usava l’espulsione come metodo educativo, pensando di avere a che fare con una scolaresca di liceali.
I ragazzini ora sono cresciuti e sanno benissimo come trattare con Luigi Di Maio: minaccia e ricatto. Per ottenere il massimo dividendo politico possibile (copyright Nicola Biondo), proprio come il Presidente della Camera Roberto Fico.
Si è infatti verificato quanto avevo sostenuto: gli emendamenti presentati al decreto sicurezza erano un bluff per alzare la posta. Non solo sono stati ritirati, chissà in cambio di cosa da parte del ministro dello Sviluppo, ma oggi è stata posta la fiducia sul provvedimento, tra gli applausi di Lega e Movimento.
Per capire il futuro della politica nazionale, spesso può essere utile leggere le cronache locali.
Mercoledì scorso il Giornale di Sicilia pubblica il resoconto di un’intervista televisiva di Giancarlo Cancelleri, tirapiedi siciliano di Luigi Di Maio e fratello dell’onorevole Azzurra Cancelleri, alla seconda legislatura.
L’articolo contiene una notizia e mezza. Anche al voto europeo, la prossima primavera, ci saranno candidature scelte direttamente dal Capo Politico, cioè Di Maio. L’obiettivo è raccogliere preferenze, per farlo servono volti noti. Proprio come ai collegi uninominali dello scorso voto politico. È una mezza notizia perché sembra naturale che vogliano provare di nuovo l’ebbrezza di poter distribuire potere e assicurarsi fedeltà.
La notizia vera è un’altra: Cancelleri apre ad alleanze post elettorali a livello locale e lo fa con riferimento alla Lega. Il Movimento “non fa alleanze preventive” ma con la Lega si può “trovare un punto di intesa successivo”.
Uno scenario simile, se dovesse trovare riscontri reali dopo le amministrative, significherebbe che si sta delineando la politica nazionale dei prossimi dieci anni. Uno scenario che trova riscontro a Roma (com’è ovvio) come a Bruxelles. Scrivevo qualche settimana fa come in europa il Movimento sia condannato a trovare nuove alleanze per contare qualcosa. Orfano di Nigel Farage (il Regno Unito, causa Brexit, non eleggerà europarlamentari), Di Maio e soci dovranno trovare una nuova casa, pena l’impossibilità di esercitare l’azione politica e, soprattutto, di accedere ai fondi riservati ai gruppi politici. Servono 25 parlamentari di sette paesi per formare un gruppo: l’aggancio con l’ALDE (i liberali) è fallito due anni fa, i verdi non ne vogliono sapere (e nemmeno Casaleggio).
Al Movimento, per adesso, resta il gruppo di Salvini e Marine Le Pen.
La vicenda è ormai nota. Martedì la Camera approva con voto segreto un emendamento alla legge anticorruzione (quella che contiene – ancora, ma ci torneremo – le norme salva Casaleggio) che ammorbidisce i reati di abuso d’ufficio e peculato.
Ovviamente c’è un problema, significa che qualcuno, nella maggioranza, ha votato con l’opposizione. Aldo Giannuli, visto che l’estensore dell’emendamento è un ex M5s iscritto alla massoneria, ha ipotizzato un accordo trasversale tra confratelli.
Sia come sia, secondo i calcoli, i deputati di maggioranza che hanno votato l’emendamento contro la linea definita dal governo sono almeno 36. Statisticamente è molto difficile che, come accusa Di Maio, siano tutti della Lega. Ieri, nell’assemblea trasmessa in streaming, è apparso estremamente in difficoltà. Ma questa, ovviamente, è una mia impressione.
Come spiegavo ieri, nel Movimento è finita la stagione dei dissidenti che, pubblicamente, mettono in difficoltà la leadership: non conviene a nessuno. Meglio, come ha fatto Roberto Fico, incassare alti dividendi politici (copyright Nicola Biondo) con messaggi comprensibili solo a chi ha le giuste chiavi di lettura.
Quell’emendamento è un provvedimento secondario, che si può eventualmente correggere con altri passaggi parlamentari. Questo voto è un messaggio. Ai parlamentari del Movimento 5 Stelle non importa nulla di quello che si vota o meno, si può anche derogare ai princìpi per un reato come il peculato (l’appropriazione indebita di risorse dello Stato da parte di pubblici funzionari). Quello che importa è che tutti abbiano la propria ricompensa: in questi mesi, senatori e deputati provenienti dalla scorsa legislatura sono stati accontentati. Posti di governo e sottogoverno, presidenze di commissione, incarichi nel partito. Quelli di prima nomina, invece, sono ancora in lista d’attesa, e la pazienza sta finendo.
La preoccupazione è che la leadership di Luigi Di Maio non sia in grado di garantire nulla per il prossimo giro di giostra. Il sospetto è che, ormai, chi ha più “anzianità” si sia rassegnato al fatto che questa legislatura resterà un’esperienza isolata.
Se così dev’essere, allora durerà cinque anni, anche a costo di cambiare cavallo, leader, governo. C’è chi, nel Movimento, senza esporsi come “dissidente”, è comunque pronto a formare maggioranze alternative per tutelare la legislatura.
Tocca tornare sul tema dei dissidenti perché ad ogni emendamento che un parlamentare del Movimento presenta sembra che stia per cadere il governo. Ovviamente non è così, ora vediamo perché.
Anzitutto il tema, questo sì, è abbastanza vintage. Poteva essere interessante quando Grillo e Casaleggio facevano i video incazzosi per cacciare Favia, o anche all’inizio della scorsa legislatura quando Gianroberto cercava di comandare un gruppo di 160 neodeputati, fino a un giorno prima spesso senza nemmeno un lavoro, a colpi di mazzate digitali. Per un po’ ha pure funzionato. Adesso no, perché oltre a capire i vantaggi di espellere chi non si allinea, cioè rintuzzare le truppe cammellate sui social dei fan delle pagine Facebook, si sono capiti pure gli svantaggi.
Che non sono mediatici, anzi. Più se ne parla, da questo punto di vista, meglio è, più consenso raccolgono. Gli svantaggi sono economici, sia per il gruppo parlamentare che per l’interessato. Il gruppo perde soldi (i contributi di Camera e Senato sono proporzionali al numero di aderenti al gruppo), l’interessato perde la ricandidatura e la visibilità. Appena vieni espulso, non sei più un “dissidente” quindi non sei una notizia.
Nel Movimento, invece, si sono fatti furbi tutti quanti. Lasciare le briglie sciolte permette ai pigiapulsante che Casaleggio ha fatto eleggere di finire sulle homepage dei quotidiani, al partito di mostrare un minimo di vitalità e ai vertici di tenere sul chi va là gli amici della Lega.
Di Maio, dal canto suo, può promettere molto dalla sua posizione: finché la manterrà, se le cose si mettono male, può sempre far passare un emendamento qua e là per mettere a cuccia i suoi cagnolini.
Questo è l’equilibrio che si è venuto a creare. Non esiste alcuna corrente nel Movimento, tanto meno legata al Presidente della Camera che ha dimostrato di avere la spina dorsale di una medusa d’acqua dolce.
C’è qualcosa che minaccia questo equilibrio? Sì: la mancanza di materia prima, cioè ricandidature e potere da distribuire sotto forma di “premi” (per usare il termine che Di Maio ha utilizzato parlando di Luca Lanzalone) parlamentari e non. Nel momento in cui il capo non potrà più promettere nulla, sarà necessario trovare nuovi equilibri. Attenzione: nuovi equilibri. Non significa che salterà il banco: prima di arrivare al voto anticipato la situazione dovrà essere veramente, veramente pericolosa. Difficilmente un parlamento composto al 60% di deputati e senatori di prima nomina sceglierà di tornare al voto.
A febbraio 2022 si vota il nuovo Capo dello Stato.
A settembre 2022 seicento rappresentati del popolo maturano il diritto alla pensione.
Torniamo a parlare della salva Casaleggio. Breve riassunto: il ministro Bonafede ha presentato la legge anticorruzione che contiene alcuni commi cuciti addosso all’associazione Rousseau e a Davide Casaleggio. Queste norme, infatti, cristallizzando e legittimano per legge la singolare amministrazione del Movimento 5 Stelle, di fatto in mano proprio a Rousseau.
La prima riguarda la natura dell’Associazione Rousseau e la sua legittimità ad amministrare il partito e raccogliere soldi a suo nome da parlamentari e simpatizzanti.
Proprio la raccolta dei fondi riguarda un altro comma della legge: viene abbassato il limite per cui è necessario comunicare il donatore a questi soggetti (fondazioni e, ora, anche associazioni) da 5000 a 500 euro.
Apparentemente sembra una norma di trasparenza. In realtà da un lato consegna un vantaggio competitivo al Movimento e a Rousseau, visto che la maggior parte delle donazioni è inferiore a quella cifra a differenza dagli altri soggetti politici. Dall’altro mette al riparo lo stesso Casaleggio dalle domande indiscrete dei parlamentari, visto che oltre alla privacy ci sarà anche questa legislazione a proteggere l’identità dei donatori.
Attenzione però: in questo modo solo Davide Casaleggio (e i suoi dipendenti) potranno conoscere in effetti chi sostiene finanziariamente il Movimento. È un’informazione determinante per conoscere chi sono i portatori d’interessi del primo partito di governo ed è un’informazione che sarà nella sola disponibilità di un soggetto privato, non sottoposto a controllo democratico, che dispone di quei fondi del tutto autonomamente.
È chiaro che questa informazione rafforza enormemente, per legge, l’influenza di Casaleggio sul partito. Ad esempio, è l’unico a sapere se quelle decine e decine di “L.P.” tra i donatori a Rousseau siano o meno, facciamo un esempio di scuola, Luca Parnasi. Sarebbe interessante saperlo perché Parnasi è indagato insieme a Lanzalone per la vicenda dello Stadio della Roma, e Lanzalone è colui che ha scritto lo Statuo del Movimento.
Se questa lobby abbia o meno sostenuto finanziariamente il Movimento 5 Stelle tramite l’Associazione Rousseau lo sa solo Davide Casaleggio. Grazie alla legge salva Casaleggio sarà sempre così.
La scorsa settimana ho scritto un articolo per spiegare come nella legge anticorruzione di Bonafede si nascondano delle norme salva Casaleggio. Il ministro Di Maio ha replicato con un video su Facebook con alcune bugie e nessuna spiegazione sugli aiuti all’Assocazione Rousseau e Davide Casaleggio previsti dal provvedimento. Il Movimento, però, ha pure rimandato di una settimana l’inizio della discussione in Aula.
Non tutto è chiaro tra i pentastellati: il motivo della reazione del ministro è la difficoltà crescente a spiegare il ruolo di Casaleggio e la sua legittimità di raccogliere e gestire in autonomia una marea di soldi, quasi nove milioni di euro a legislatura. Può farlo grazie a un articolo del nuovo Statuo del M5s, scritto lo scorso anno da Luca Lanzalone, che stabilisce la delega all’associazione Rousseau dell’amministrazione dei processi democratici del partito e, di conseguenza, nel regolamento viene prevista una quota per ogni eletto di 300€ al mese da conferire per lo scopo all’associazione di Casaleggio.
Questi soldi, più quelli raccolti tra i simpatizzanti, vengo utilizzati anche per altro, come ad esempio la Rousseau Open Academy, iniziativa di Casaleggio mai deliberata dagli organi del partito.
Tra i parlamentari, comprensibilmente, comincia ad esserci un po’ d’insofferenza: per quale motivo dev’essere proprio Davide Casaleggio tramite un’associazione privata? Perché non può farlo direttamente il partito, visto che peraltro il portale Rousseau è un colabrodo che mette a rischio i dati degli utenti?
È qui che interviene il primo punto della norma salva Casaleggio. L’articolo 9 della legge Bonafede dice che “sono equiparate ai partiti e movimenti politici le fondazioni, le associazioni e i comitati la composizione dei cui organi direttivi sia determinata in tutto o in parte da deliberazioni di partiti o movimenti politici ovvero che abbiano come scopo sociale l’elaborazione di politiche pubbliche”. Come Rousseau.
Viene legittimata per legge ed equiparata ad una fondazione politica l’associazione privata di Casaleggio, fondata insieme al padre mentre quest’ultimo era sul proprio letto di morte.
Viene legittimata per legge la successione dinastica dell’amministrazione del primo partito al governo dell’Italia.
Il primo passaggio cui ne seguiranno altri, come vedremo nei prossimi giorni, per blindare l’associazione Rousseau come amministratore del partito e mettere al riparo Casaleggio, e i soldi che raccoglie in nome e per conto del Movimento 5 Stelle, dai dubbi dei parlamentari.
È partita la macchina del fango a danno del senatore Gregorio De Falco. Èd è fuoco amico, che parte da un cecchino molto vicino a Di Maio e Davide Casaleggio.
Quando Gianroberto Casaleggio amministrava il Blog di Beppe Grillo, se un eletto del M5s cominciava a dare “segni di cedimento” mettendo a rischio “la testuggine romana”, per usare le parole di Luigi Di Maio, la reazione era tanto semplice quanto spietata. Si scriveva un post, o più spesso un PS, per insultare o dileggiare l’interessata o l’interessato. Accadde con Federica Salsi, rea di aver partecipato a una trasmissione televisiva (!); accadde a Valentino Tavolazzi, accusato di voler organizzare una riunione (!); accadde, molto rumorosamente, a Giovanni Favia reo di aver parlato male del capo con un giornalista (!).
In particolare con Favia fu sperimentata una tecnica a quel tempo “innovativa”: fu fatto scrivere da un giornalista tirapiedi un articolo, poi pubblicato sul Blog, in cui s’insinuava che il fuori onda durante il quale Favia commentava l’operato di Casaleggio fosse concordato. Circostanza del tutto falsa, ma il messaggio passò nella comunità del Blog ed espellere Favia, settimane dopo, fu, per i garanti, molto più semplice di quanto potesse sembrare inizialmente.
Che si fa oggi quando un parlamentare del M5s mette a rischio la credibilità del capo? Cosa succede se il Senatore De Falco, scelto personalmente da Luigi Di Maio dà segni d’insofferenza e si permette di criticare la linea del governo?
De Falco ha di recente espresso contrarietà ad alcune norme del decreto sicurezza, lamentandosi della richiesta di ritirare gli emendamenti, annunciando voto contrario a meno che non sia posta la questione di fiducia. Per intenderci: non vuole mettere in crisi il governo, ma non è disposto a rinunciare alle sue prerogative di senatore. Ho già espresso la mia opinione in merito ai nuovi “dissidenti“, non mi ripeterò qui, ma potete leggere l’articolo della scorsa settimana.
Ma qualcosa è successo, nel sottobosco della comunicazione parallela legata, in maniera più o meno evidente e più o meno stretta, a Di Maio e al Sistema Casaleggio. È apparso un articolo sul sito Silenzi e Falsità del tutto simile, per struttura e contenuti, a quello che fu pubblicato per la character assassination di Giovanni Favia. Si ricorda il passato pubblico di De Falco (“…salga a bordo, cazzo!”) sostenendo che fosse una recita. Lo si accusa di essere un infiltrato di Repubblica. Insomma, lo si addita come sabotatore. Qual è il fatto interessante? Che il sito Silenzi e Falsità è di proprietà di Marcello Dettori, fratello di Pietro il quale è consigliere di Di Maio e socio di Davide Casaleggio nell’Associazione Rousseau.
Un pezzo di Sistema che si muove tempestivamente, probabilmente senza nemmeno necessità di coordinamento. Come le formiche descritte da Davide Casaleggio nel suo libro Tu Sei Rete.
Sono abbastanza convinto che le grandi opere, col Movimento 5 Stelle, si faranno tutte. TAP, MUOS, TAV, Brennero. Me ne sono convinto soprattutto dopo la gestione del dossier sul gasdotto, approvato settimana scorsa dal Governo Conte: quella vicenda è illuminante sotto molti aspetti.
Se avete la pazienza di seguirmi, bisogna partire dall’idea che Gianroberto Casaleggio aveva del Movimento: come abbiamo spiegato in Supernova io e Nicola Biondo, Casaleggio intendeva federare le realtà locali già esistenti, sia le esperienze politiche, le liste civiche, che quelle dei comitati di protesta. Pochi lo ricordano, ma per la versione “beta” del Movimento il Blog di Grillo invitava liste locali anche già formate, non necessariamente con la faccia di Grillo nel contrassegno, a inviare la documentazione (programma, casellari giudiziari dei candidati) per ottenere la bollinatura ed essere sponsorizzate dal Blog. Il progetto fu abbandonato quasi subito a causa dei conflitti, inevitabili, tra le liste già esistenti e quelle formate dai MeetUp, che pretendevano un diritto di prelazione.
Sul fronte dei comitati, invece, la speranza di Roberto era la contaminazione: avrebbe voluto che le liste civiche fossero formate dagli stessi leader dei movimenti di protesta, non diventare i nuovi referenti politici. La motivazione è piuttosto scontata: se fossero stati parte integrante del Movimento non ci sarebbe stato il rischio che, per qualche motivo, ce li si ritrovasse contro prima o poi. Casaleggio voleva fornire una piattaforma comune che ciascuna realtà potesse utilizzare per veicolare la propria battaglia, inglobando nella sua creatura il consenso che i NoTav, no Muos, no Mose, no Tap avevano già faticosamente raccolto. Questo concetto venne ingenuamente spiegato da Roberta Lombardi nella celeberrima diretta con Bersani: “siamo noi le parti sociali“. Come alcuni candidati raccontarono, in quei primi anni si tenevano in Casaleggio Associati alcuni incontri preparatori alla campagna elettorale durante i quali Davide Casaleggio invitava a non considerare alleanze con i Verdi perché “siamo noi i Verdi“.
In alcuni casi questa operazione è in parte riuscita: in Piemonte, ad esempio, molti degli eletti locali e nazionali arrivano dall’esperienza No Tav. La saldatura, però, è in generale fallita e l’attuale dirigenza, quella che ha scalato il Movimento, non viene da nessuna di queste realtà ed esperienze. Di Maio, Toninelli, Lezzi non erano attivisti di alcuna di queste proteste; il M5s è diventato ciò che Gianroberto voleva evitare: solo l’ennesimo referente politico al quale possono essere voltate le spalle nel momento in cui non mantiene le promesse.
L’approvazione del gasdotto TAP dimostra benissimo quanto spiegato e ci aiuta a capire cosa succederà in futuro: lo schema è semplicemente replicabile. Si avvia una verifica costi-benefici della promessa, si appura che l’opera non si può fermare per i costi elevati, il presidente del Consiglio, sconosciuto prima del voto, non vincolato da un incarico elettivo, si assume la responsabilità della scelta. Ai Di Maio, Toninelli, Lezzi non importa nulla della Val Susa, del Salento, del Brennero o della concessione ai Benetton: sono ben felici di rivendicare i meriti delle battaglie combattute da altri quanto di allontanare da sé la responsabilità delle promesse tradite.
Segnatevi la frase “principi originari del Movimento“: è quello il segnale.
Quando un parlamentare viene additato come “dissidente” e pronuncia quella frase ha già deciso che il M5s non è più la sua casa e vuole alzare la posta per evitare di complicare la vita di Di Maio e Rocco Casalino.
Quella frase è un segnale ed è la criptonite dei dirigenti: Casaleggio, Grillo, Di Maio, Casalino. Lo è perché è chiaro ed evidente che il partito non c’entra nulla col il Movimento del 2009, quando ancora non erano stati capiti (nemmeno dal sottoscritto) la natura e i propositi dei Casaleggio; lo è perché quella frase ricorda le precedenti esperienze coi “dissidenti” da Valentino Tavolazzi (espulso con un ps. sul Blog nel 2012), tutte dolorose, ciascuna più devastante della precedente.
Se qualche anno fa il tentativo di coloro ai quali la gestione del partito era diventata stretta era quello di provocare uno scossone e cercare di rimettere la comunità in carreggiata, oggi non esiste proprio più la comunità. Gli attivisti, come scrive Nicola Biondo nel nostro Supernova, sono stati rimpiazzati dai fan delle pagine Facebook dei parlamentari. Non c’è alcuna possibilità di contribuire alla linea politica decisa da Di Maio e Casaleggio, che governano il M5s grazie a uno Statuto, scritto da Luca Lanzalone, che attribuisce ogni potere al capo politico e l’amministrazione dei processi democratici (o almeno della loro facciata) e dei finanziamenti di attivisti e parlamentari all’associazione Rousseau.
Sono anche cambiate le condizioni: il M5s oggi è al governo e Di Maio, che sullo scambio di cortesie ha costruito la sua scalata al Movimento, ha molto più da offrire rispetto a quando era vicepresidente della Camera. I “dissidenti” hanno ben poco da guadagnare nell’abbandonare il Movimento, ma molto più di prima nel piantare grane, soprattutto i parlamentari di prima nomina, che matureranno il diritto alla pensione nel 2022 e quelli al secondo mandato che non hanno ottenuto incarichi particolarmente prestigiosi.
Il che non significa, ovviamente, che non ci saranno espulsioni o defezioni: è possibile che questo accada. Saranno solo molto più lunghe le trattative per limitare i danni d’immagine al partito.
Nei giorni scorsi ho conversato con alcuni amici, per lo più militanti del Partito Democratico, che si interrogavano sulla carriera politica di Di Maio. La domanda più gettonata è: come ha fatto?
Come ha fatto a diventare ministro e vicepremier a 31 anni, a ribaltare il suo partito, a prenderlo in mano e condurlo oltre il 30%. Come fa a tenerlo insieme, così apparentemente compatto, al governo? Come ha messo a tacere, anzi portandoli dalla sua parte, i suoi avversari interni, perfino Beppe Grillo?
Domande lecite, opportune, che meritano una risposta.
Di Maio non ha imposto una visione politica, non ha convinto gli avversari interni, non ribaltato il partito. Di Maio non è un animale politico: ha solo capito, in questo sì è stato bravo, quali fossero le esigenze dei suoi compagni di viaggio e ha dato a ciascuno quel che voleva.
Nel 2013 il Movimento 5 Stelle conquista il 25% dei voti, elegge 160 parlamentari. Molti non si conoscono nemmeno tra loro, non c’è una vera strategia per affrontare il successo oltre le previsioni. Per alcune settimane il Movimento vive di rendita: la sconfitta di Bersani manda manda nel panico i democratici. Quando s’insediano le Camere nessuno sa come si sarebbero comportati i “grillini” così, per non sbagliare, gli si concede la vicepresidenza della Camera dei Deputati. Di Maio è scaltro: studia i regolamenti e si fa assegnare l’incarico dal suo partito, che per selezionare le cariche istituzionali, all’epoca, sottoponeva i candidati alla “graticola”, una sorta di interrogazione per saggiarne le qualità. Nella desolazione di cervelli che era il gruppo parlamentare all’epoca, il parlamentare campano spicca. Preparato e “istituzionale”, mastica politica fin da piccolo (il padre è un ex dirigente del Movimento Sociale). Viene eletto.
Dalla vicepresidenza della Camera Di Maio ha gioco facile: può avere un suo staff personale, può premiare e punire i suoi colleghi agevolando o bloccando proposte ed emendamenti. Comincia a costruire la propria influenza nel partito.
Nel frattempo, non si risparmia nemmeno sul territorio: spende, nella legislatura, centinaia di migliaia di euro in “eventi sul territorio”, finanziamento pubblico al (proprio personale) partito, per pagare incontri con gli attivisti.
Sempre attento, in equilibrio tra parole d’ordine e ruolo istituzionale, a non contraddire i capi: Grillo e Casaleggio.
Il quale Casaleggio, a ridosso delle elezioni europee del 2014, si ammala per la seconda volta e perde il polso sul partito. Inizia la scalata.
Di Maio fa la sua mossa: manda avanti un collega (non si espone mai in prima persona) e fa proporre ai “garanti” la costituzione del Direttorio. Inizialmente, la proposta è respinta: in Supernova documentiamo un ferocissimo scambio via email tra i fondatori e lo sherpa del vicepresidente della Camera. Ma è solo questione di tempo: alla fine, il direttorio si fa. Ne fanno parte Di Maio, Di Battista, Fico, Sibilia e Ruocco. Due potenziali avversari, un’amica stretta di Grillo, il riferimento dei parlamentari complottisti (che all’epoca non sono pochi). In quell’organo, che diventa di fatto la segreteria del Partito, Di Maio consolida il suo potere e la sua influenza: gli altri parlamentari escono dai radar dei giornali, che si concentrano sui cinque.
Quell’esperienza dura due anni, fino al 2016, quando diventa chiaro che la leadership politica del partito è, ormai, di Di Maio.
Casaleggio muore ad aprile di quell’anno: era l’unico vero ostacolo alla corsa del fuoricorso di Pomigliano. Alla festa del partito nel 2015 a Imola, infatti, Casaleggio aveva urlato nel microfono con le poche forze che gli rimanevano: “non ci faremo imporre il candidato premier dalle televisioni”. Il riferimento era chiarissimo. E infatti, due giorni dopo il funerale del fondatore, Luigi Di Maio è in TV, in prima serata, al TG1: “il candidato lo sceglieremo in rete, se il Movimento vorrà io non mi tirerò indietro”. È fatta.
In quel momento è già tutto deciso: Di Maio e Davide Casaleggio, il figlio del defunto fondatore, hanno già stretto l’accordo. Davide continuerà a gestire i dati e i soldi delle donazioni, centinaia di migliaia di euro all’anno (oggi, alcuni milioni a legislatura), Luigi sarà il capo. Garante del patto: Rocco Casalino, che mantiene il controllo sulla comunicazione, premiando e punendo i parlamentari ossia scegliendo chi va in tv, chi rilascia interviste.
La Rivolta monta, viene riportata dai giornali. Ma dura poco: Di Maio sa di avere dalla sua Casaleggio, Casalino, la maggioranza del gruppo parlamentare e un nuovo Statuto nel cassetto. Nel 2017 Luca Lanzalone scrive, infatti, le nuove regole: l’associazione Rousseau di Casaleggio diventa di fatto la tesoreria del Movimento, controlla le donazioni e i processi democratici del partito; il capo politico non è più Grillo, ma viene eletto dalla base.
La votazione si svolge, ma contro Di Maio non c’è nessuno dei parlamentari di peso: né Di Battista né Fico si candidano. Di Maio diventa candidato premier, garantendo i parlamentari in uscita: tutti avranno la loro fetta di torta.
Oggi, i parlamentari di seconda nomina hanno quasi tutti un incarico istituzionale: chi presidente di commissione, chi sottosegretario. Perfino Laura Castelli, che è stata nostra fonte per Supernova: viceministro. Roberto Fico è presidente della Camera. Davide Casaleggio conserva il suo ruolo, inamovibile, la sua influenza, l’amministrazione dei soldi.