Hackerare la democrazia

 

Il concetto che ha dato il titolo a questo articolo non è mio (non voglio dirvi subito di chi è per creare un po’ di hype, lo saprete fra qualche mese), ma spiega benissimo il tema che le nostre democrazie devono affrontare, e alla svelta.

Davide Casaleggio è presidente di Casaleggio Associati, l’azienda di famiglia che si occupa di tecnologia, comunicazione, strategie aziendali, ma anche presidente dell’Associazione Rousseau, alla quale il primo partito di governo ha delegato la propria amministrazione.

È anche presidente di una (piccola?) associazione culturale fondata nel nome di suo padre Gianroberto Casaleggio, che organizza cene di finanziamento durante l’anno e un grosso evento con numerose conferenze e numerosi ospiti ogni anno a Ivrea (Sum).

Casaleggio gestisce tutte le attività attraverso queste entità che assolvono a specifiche funzioni, parla ed è riconosciuto leader del Movimento 5 Stelle ma non ha alcun ruolo formale in seno ad esso e, a leggere gli statuti, non esiste procedura per rimuoverlo dal proprio ruolo.

Questa condizione gli permette di amministrare attività, relazioni, potere, influenza in totale autonomia.

La struttura che hanno costruito Gianroberto e Davide Casaleggio, attraverso la quale acquisire potere, consenso, dati e relazioni, è un pericolo per i nostri sistemi istituzionali? Siamo preparati a gestire un nuovo modello organizzativo in cui è formalmente legale l’accentramento dell’amministrazione del partito, del consenso, delle relazioni, dei processi democratici, ma il titolare di questi poteri non è sottoposto ad alcun controllo democratico?

ByoBlu, il BreitBart italiano

Negli Stati Uniti, la vittoria di Trump è stata concimata e coltivata anche e soprattutto da un sito di nome BreitBart, fondato e dirett Complotti e verità alternative: Messora è un caso da studiare o dall’ex stratega Steve Bannon.

BreitBart ha dato voce ed è servito da crocevia di quella sottocultura della peggiore destraccia americana nata insieme al Tea Party che già nel 2008, con Sarah Palin candidata vicepresidente, aveva sfiorato la Casa Bianca.

Il sito di Bannon è stato, ed è, il posto in cui trovi tutto ciò che riguarda quell’area culturale: tutte le voci, i complotti, le verità alternative, tutto ciò che si può considerare affine alla sensibilità degli elettori di Trump si trova lì.

Anche in Italia c’è una realtà simile: il sito e il canale YouTube di Claudio Messora, conosciuto come ByoBlu.

Ne parlo perché ci sono capitato quasi per caso, dopo molto tempo, l’altro ieri e l’ultimo video era una conferenza in cui allo stesso tavolo, vicino a Messora, sedeva il Presidente della Rai Marcello Foa. Foa è noto agli spettatori di ByoBlu: scorrendo la timeline dei video pubblicati lo si ritrova spesso intervistato, insieme a Bagnai, Borghi, Fusaro, Montanari, Chiesa ma anche esperti seri come Marco Montemagno e Guido Scorza.

La storia di Messora è interessante, ma non ne voglio parlare qui (magari lo faremo più avanti). Quello che vorrei sottolineare, a malincuore, è l’errore commesso in questi anni, anche da me, nel sottovalutare l’importanza di quella realtà. Mescolando le peggio minchiate della Rete a importanti temi d’attualità Messora ha contribuito a creare la sottocultura economico-politico-bufalar-complottista che oggi è classe dirigente al governo del Paese.

Molte di quelle persone “di casa a ByoBlu” come recita il titolo di una delle playlist, ricoprono importanti ruoli pubblici e istituzionali, o sono considerati organici a quell’area.

Di contro, e spero di sbagliarmi, non esiste in Rete un equivalente luogo virtuale riconoscibile come la casa di chi oppone la medicina alle bufale sui vaccini, la scienza economica al Monopoli, il fact checking alle verità alternative.

Che ne pensate?

La vera storia della scalata di Di Maio

Nei giorni scorsi ho conversato con alcuni amici, per lo più militanti del Partito Democratico, che si interrogavano sulla carriera politica di Di Maio. La domanda più gettonata è: come ha fatto?

Come ha fatto a diventare ministro e vicepremier a 31 anni, a ribaltare il suo partito, a prenderlo in mano e condurlo oltre il 30%. Come fa a tenerlo insieme, così apparentemente compatto, al governo? Come ha messo a tacere, anzi portandoli dalla sua parte, i suoi avversari interni, perfino Beppe Grillo?

Domande lecite, opportune, che meritano una risposta.

Di Maio non ha imposto una visione politica, non ha convinto gli avversari interni, non ribaltato il partito. Di Maio non è un animale politico: ha solo capito, in questo sì è stato bravo, quali fossero le esigenze dei suoi compagni di viaggio e ha dato a ciascuno quel che voleva.

Nel 2013 il Movimento 5 Stelle conquista il 25% dei voti, elegge 160 parlamentari. Molti non si conoscono nemmeno tra loro, non c’è una vera strategia per affrontare il successo oltre le previsioni. Per alcune settimane il Movimento vive di rendita: la sconfitta di Bersani manda manda nel panico i democratici. Quando s’insediano le Camere nessuno sa come si sarebbero comportati i “grillini” così, per non sbagliare, gli si concede la vicepresidenza della Camera dei Deputati. Di Maio è scaltro: studia i regolamenti e si fa assegnare l’incarico dal suo partito, che per selezionare le cariche istituzionali, all’epoca, sottoponeva i candidati alla “graticola”, una sorta di interrogazione per saggiarne le qualità. Nella desolazione di cervelli che era il gruppo parlamentare all’epoca, il parlamentare campano spicca. Preparato e “istituzionale”, mastica politica fin da piccolo (il padre è un ex dirigente del Movimento Sociale). Viene eletto.

Dalla vicepresidenza della Camera Di Maio ha gioco facile: può avere un suo staff personale, può premiare e punire i suoi colleghi agevolando o bloccando proposte ed emendamenti. Comincia a costruire la propria influenza nel partito.

Nel frattempo, non si risparmia nemmeno sul territorio: spende, nella legislatura, centinaia di migliaia di euro in “eventi sul territorio”, finanziamento pubblico al (proprio personale) partito, per pagare incontri con gli attivisti.

Sempre attento, in equilibrio tra parole d’ordine e ruolo istituzionale, a non contraddire i capi: Grillo e Casaleggio.

Il quale Casaleggio, a ridosso delle elezioni europee del 2014, si ammala per la seconda volta e perde il polso sul partito. Inizia la scalata.

A Milano, il figlio comincia ad occuparsi sempre più spesso del partito, all’insaputa di tutti salvo i fedelissimi, in particolare Pietro Dettori.

A Roma, Casalino diventa capo della comunicazione sia alla Camera che al Senato.

Di Maio fa la sua mossa: manda avanti un collega (non si espone mai in prima persona) e fa proporre ai “garanti” la costituzione del Direttorio. Inizialmente, la proposta è respinta: in Supernova documentiamo un ferocissimo scambio via email tra i fondatori e lo sherpa del vicepresidente della Camera. Ma è solo questione di tempo: alla fine, il direttorio si fa. Ne fanno parte Di Maio, Di Battista, Fico, Sibilia e Ruocco. Due potenziali avversari, un’amica stretta di Grillo, il riferimento dei parlamentari complottisti (che all’epoca non sono pochi). In quell’organo, che diventa di fatto la segreteria del Partito, Di Maio consolida il suo potere e la sua influenza: gli altri parlamentari escono dai radar dei giornali, che si concentrano sui cinque.

Quell’esperienza dura due anni, fino al 2016, quando diventa chiaro che la leadership politica del partito è, ormai, di Di Maio.

Casaleggio muore ad aprile di quell’anno: era l’unico vero ostacolo alla corsa del fuoricorso di Pomigliano. Alla festa del partito nel 2015 a Imola, infatti, Casaleggio aveva urlato nel microfono con le poche forze che gli rimanevano: “non ci faremo imporre il candidato premier dalle televisioni”. Il riferimento era chiarissimo. E infatti, due giorni dopo il funerale del fondatore, Luigi Di Maio è in TV, in prima serata, al TG1: “il candidato lo sceglieremo in rete, se il Movimento vorrà io non mi tirerò indietro”. È fatta.

In quel momento è già tutto deciso: Di Maio e Davide Casaleggio, il figlio del defunto fondatore, hanno già stretto l’accordo. Davide continuerà a gestire i dati e i soldi delle donazioni, centinaia di migliaia di euro all’anno (oggi, alcuni milioni a legislatura), Luigi sarà il capo. Garante del patto: Rocco Casalino, che mantiene il controllo sulla comunicazione, premiando e punendo i parlamentari ossia scegliendo chi va in tv, chi rilascia interviste.

Casalino diventa depositario di tutti gli sfoghi, le confidenze, le lamentele dei parlamentari. Anche della fronda che non ci sta: pochi parlamentari che vorrebbero una vera sfida ai vertici per la candidatura a premier. Vogliono Roberto Fico.

La Rivolta monta, viene riportata dai giornali. Ma dura poco: Di Maio sa di avere dalla sua Casaleggio, Casalino, la maggioranza del gruppo parlamentare e un nuovo Statuto nel cassetto. Nel 2017 Luca Lanzalone scrive, infatti, le nuove regole: l’associazione Rousseau di Casaleggio diventa di fatto la tesoreria del Movimento, controlla le donazioni e i processi democratici del partito; il capo politico non è più Grillo, ma viene eletto dalla base.

La votazione si svolge, ma contro Di Maio non c’è nessuno dei parlamentari di peso: né Di Battista né Fico si candidano. Di Maio diventa candidato premier, garantendo i parlamentari in uscita: tutti avranno la loro fetta di torta.

Oggi, i parlamentari di seconda nomina hanno quasi tutti un incarico istituzionale: chi presidente di commissione, chi sottosegretario. Perfino Laura Castelli, che è stata nostra fonte per Supernova: viceministro. Roberto Fico è presidente della Camera. Davide Casaleggio conserva il suo ruolo, inamovibile, la sua influenza, l’amministrazione dei soldi.

 

La legislatura del voto di scambio

 

Tra le decine di motivi, di cui ho già parlato, per cui questa legislatura durerà cinque anni possiamo aggiungere il seguente, soprattutto alla luce degli eventi dello scorso weekend: gli equilibri parlamentari di maggioranza e opposizione si reggono su accordi più o meno taciti tra i partiti di maggioranza, tra quesi e quelli delle “due opposizioni” — ci torniamo — e le decine di piccoli accordicchi locali e nazionali tra M5s e Lega e i rispettivi elettorati. Per quanto riguarda il più grosso partito di maggioranza, il Movimento, possiamo aggiungere i ricatti incrociati e le prebende distribuite.

Cominciamo dai rapporti tra maggioranza e opposizione: viviamo nell’incredibile condizione per cui, come già qualche osservatore ha sottolineato, esistono due mezze opposizioni al governo. Forza Italia resta alleata della Lega a livello locale e avversaria a livello nazionale ed Europeo (fanno parte di due diversi gruppi parlamentari avversari), pertanto si limita a qualche incursione contro il Movimento, carezzando compassionevolmente Salvini. Il Partito Democratico, o quel che ne resta, fortemente provato dalla batosta elettorale, è diviso tra chi vorrebbe fare opposizione senza quartiere e chi ancora coltiva la speranza di governare coi Cinque Stelle; così, ferocissimi attacchi a Salvini ma abboccamenti continui a Roberto Fico, che non conta un bel niente ma basta il cognome.

I due partiti di maggioranza hanno fatto un accordo di governo — il noto Contratto — che di fatto è il risultato del cherry picking di alcune promesse di ciascuno dei contraenti, incoerenti e incompatibili tra loro come il condono fiscale e la rendita di cittadinanza. Cosa regoli davvero i rapporti tra Salvini e Di Maio lo si è visto plasticamente nel corso del weekend: le rispettive porcate sono diventate merce di scambio per ricomporre un’incomprensione dovuta al pessimo lavoro svolto da Laura Castelli nella stesura del decreto fiscale. Il condono fiscale della Lega, alla fine, è rimasto com’è rimasto il condono edilizio di Ischia. Potremmo fare un elenco sterminato, ma limitiamoci a ricordare solo gli occhi chiusi di fronte al furto di 49 milioni di euro del partito di Salvini, in cambio del sostanziale disinteresse per il ciclopico conflitto di interessi di Davide Casaleggio.

Del resto, anche il rapporto coi rispettivi elettorali è fondato sullo scambio di favori: voti in cambio di soldi. Condono fiscale e flat tax le promesse di Salvini, rendita di cittadinanza, condoni edilizi a Ischia, “abuso di necessità” in Sicilia nonostante i conti pubblici non lo permettano. A Roma, poi, le cronache riportano un’eccellente opinione sulla gestione del comune da parte della famiglia Tredicine, del groviglio di interessi Ama-Atac, dei tassisti (nota la posizione ostile a Uber del Movimento), e così via.

Arrivando al Movimento, Di Maio e Casaleggio lo gestiscono con metodi estremamente chiari per chi li vuole riconoscere. Una complessa, solida, struttura di favori, silenzi, ricatti e prebende che hanno permesso a ciascun attore di ottenere il massimo possibile alle condizioni date. Ne parleremo presto.

SMS: pensi d’iscriverti al Movimento 5 Stelle ma regali i tuoi dati a Casaleggio

 

Per farmi del male, ho passato la domenica seguendo la Leopolda e Italia 5 Stelle. Non ci crederete, ma c’è un tema di cui si è parlato ad entrambe le manifestazioni che spiega bene come capire come si esercita il potere oggi.

Il tema è quello dei dati. Alla manifestazione di Matteo Renzi l’ha trattato, con competenza, il Prof. Carlo Alberto Carnevale Maffè, spiegando che dai dati si deve ripartire per costruire un’alternativa all’attuale maggioranza, con una struttura Open Source “non come Rousseau, per intenderci”.

Nel frattempo, a Roma, Davide Casaleggio presentava “una nuova funzione di Rousseau”: la possibilità di iscriversi via SMS. Già, ma iscriversi a cosa? Alla piattaforma Rousseau, che risiede all’indirizzo rousseau.movimento5stelle.it, un sottodominio del sito del partito, registrato a nome del partito.

A chi si manda l’SMS? Il numero di telefono 43030 risulta, dall’elenco disponibile attraverso il sito del MISE, registrato alla società SMS Italia s.r.l., un provider di servizi telefonici a cui, evidentemente, il M5s si rivolge per la gestione di questa funzionalità. Il M5s? Sicuri?

Come al solito, non è chiaro per l’utente, come dovrebbe essere in base alla nuova normativa GDPR, che giro facciano i dati. Il sito a cui il servizio rimanda per la normativa sui dati personali è m5sms.it, il cui titolare è l’Associazione Rousseau di Davide Casaleggio. Pensi di collegarti a un sito del Movimento (m5sms.it) ma non è vero. Per scoprire che in realtà sta parlando con Rousseau e non con Dibba un ignaro utente dovrebbe prima fare clic sul link che rimanda alla Cookie Policy del sito del Movimento. Attenzione, non la Privacy Polici, la Cookie Policy. Da lì accorgersi che non è quello il disclaimer sul trattamento dei propri dati e linkare su “Privacy Policy”, che rimanda a un PDF dove, nascosto in norme e codicilli, si dice che Rousseau è il titolare del trattamento dei dati.

Insomma: non ci si può iscrivere al Movimento senza contemporaneamente iscriversi a Rousseau e viceversa e, nel farlo, è obbligatorio consegnare i propri dati a Davide Casaleggio. Che, in questo modo, consolida la propria influenza sul partito.

A chi si deve rivolgere Di Maio per sapere il numero di iscritti? Casaleggio.

A chi si deve rivolgere Di Maio per inviare una comunicazione agl’iscritti? Casaleggio.

A chi si deve rivolgere Di Maio per lanciare una consultazione tra gl’iscritti? Casaleggio.

Chi detta legge nel Movimento?

La manina: cosa è successo davvero in quel Consiglio dei Ministri?

di Marco Canestrari e Nicola Biondo

Cosa sta succedendo davvero intorno al decreto fiscale? Chi ha fatto davvero litigare i viceministri Di Maio e Salvini?

Ieri Giorgetti, sottosegretario leghista alla Presidenza del Consiglio, rilascia un’intervista lasciando intendere che ci siano state “distrazioni” da parte dei 5 Stelle e che non conviene a Di Maio alzare i toni perché “scoprirà che la famosa “manina” è in casa loro”. Nel pomeriggio Laura Castelli, sottosegretaria M5s al tesoro, racconta a Repubblica: “tutti sappiamo cos’è successo in quella stanza” e aggiunge “non ci prendiamo in giro” senza però entrare nel dettaglio e ribadendo la contrarietà al condono.

Poco dopo, lo stesso Salvini durante una diretta Facebook assicura lealtà al governo, ma respinge con forza ogni accusa ricordando che durante quella riunione “Conte leggeva e Di Maio verbalizzava”.

L’impressione è che ormai tutti i protagonisti dell’incidente sul decreto fiscale abbiano capito com’è andata davvero ma, per imbarazzo reciproco, non lo possano ammettere pubblicamente.

Togliamo noi Di Maio, Salvini e Conte dall’imbarazzo e raccontiamo come sono andate le cose, così come abbiamo ricostruito anche grazie a fonti che nella stanze di quelle riunioni — il 15 ottobre — c’erano.

Lunedì 15 ottobre si riunisce il Consiglio dei Ministri che approva, tra le altre cose, il decreto fiscale. In preconsiglio e durante tutte le riunioni propedeutiche i testi vengono riletti, analizzati, limati articolo per articolo. Qualcuno — durante o dopo le riunioni — si accorge del problema sull’articolo nove, un passaggio molto tecnico, ma non dice nulla per molte ore. L’articolo passa: Conte legge, Di Maio scrive e verbalizza.

Il giorno dopo Di Maio si sta recando da Vespa per la registrazione di Porta a Porta e riceve una chiamata. L’interlocutore spiega che al Quirinale sta per arrivare un testo che contiene il condono, che Casalino è avvertito e che si può sfruttare mediaticamente questo fatto su Rai1. Chi parla è la stessa persona che aveva notato la norma, senza sollevare il problema nella sede opportuna. Viene concordato l’attacco: una manina, politica o tecnica, ha infilato il condono.

Di Maio in trasmissione da Vespa e, contemporaneamente, sulla sua pagina Facebook denuncia il “fatto gravissimo”. La Lega reagisce con compostezza: “Tutti eravamo d’accordo, l’abbiamo letto e riletto, nessuno ha sollevato obiezioni”.

Il caso monta, i toni si accendono. Proprio come accadde con il caso dell’impeachment a Mattarella, però, a sbraitare sono solo i Cinque Stelle mentre i Leghisti mantengono la calma.

Ieri, le interviste a Giorgetti e Castelli, che è noto non vadano molto d’accordo: la sottosegretaria è convinta che il leghista abbia una responsabilità nel fatto che non abbia ancora ricevuto deleghe da Tria.

Oggi ci sarà il Consiglio dei Ministri per risolvere la questione. Emergerà che non c’è stata alcuna manina: qualcuno nel Movimento ha dato un’informazione sbagliata a Di Maio, informazione che il vicepremier non ha verificato, fidandosi dell’interlocutore. Che però è la persona che avrebbe dovuto controllare i testi tecnici ed evitare proprio questo genere di problemi. Perché non l’ha fatto, cercando di capitalizzare l’informazione? E chi è?

La logica, e alcune fonti, portano proprio a Laura Castelli che ieri e oggi, nei corridoi dei palazzi romani, si diceva essere in grossa difficoltà. Qualcuno addirittura preconizzava una sua defenestrazione dal ministero del Tesoro: se c’è una cosa che Di Maio non sopporta, e non può permettersi, è rovinare il rapporto con Salvini che tutti sottolineano essere ottimo, personalmente.

“Ce l’avete messa voi lì, l’avete voluta voi. Se combina casini non è colpa nostra, dovete risolvere voi il problema. Io sono disposto a togliere qualcosa ma tu e io abbiamo un accordo e va rispettato”, avrebbe detto Matteo a Luigi in una telefonata dopo la puntata di Porta a Porta.

L’eredità avvelenata di Gianroberto Casaleggio

 

Non so come finirà la pantomima del decreto fiscale e della finanziaria ma riconosco lo schema e le paranoie che stanno guidando le scelte politiche e comunicative di Luigi Di Maio.

Sono le stesse incapacità e paranoie che aveva Gianroberto Casaleggio infuse fin dal principio nella sua creatura politica, nella sua macchina comunicativa.

La paranoia degli infiltrati, la cultura del sospetto, il timore del sabotaggio; e la totale incapacità di trattare, mediare, confrontare le posizioni per giungere a un compromesso.

Casaleggio, afflitto da un ciclopico complesso d’inferiorità, pur essendo colto e intelligente, non ammetteva, non concepiva che qualcuno potesse giungere a conclusioni diverse dalla sua avendo a disposizione gli stessi elementi da valutare. Rifiutava la possibilità di ammettere un errore. Quando colto in fallo, quando minacciato da eventi non previsti, la sua reazione era spesso scomposta: espulsioni, divieti, i famigerati “Ps.” in fondo ai post del blog di Beppe Grillo.

Con lui non si poteva trattare, non era in grado di trattare, non voleva cercare compromessi.

Questo clima lugubre di terrore ha sempre aleggiato nei gruppi parlamentari del Movimento e, ora, domina gli animi di ministri e sottosegretari con l’ansia da prestazione governativa.

Incapace di trovare soluzioni, Casaleggio si rifugiava nella comunicazione: era irrilevante la conseguenza di una decisione, l’obiettivo era comunicare il messaggio.

Questo è la chiave per decifrare quel che sta succedendo in questi giorni, soprattutto in vista di “Italia 5 Stelle”, l’incontro nazionale in programma a Roma il prossimo weekend: i nodi si scioglieranno nel modo migliore possibile funzionale alla comunicazione all’elettorato che i parlamentari incontreranno fra pochi giorni.

M5s: l’accordo impossibile col PD

L’effetto Dunning-Kruger che vince sulla logica

di Marco Canestrari e Nicola Biondo


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Francesco Cancellato, cambiando posizione rispetto allo scorso aprile, sostiene in un suo editoriale che “non fare il governo Pd-M5s sia stato un errore colossale”.

L’articolo inizia precisando che “la storia non si fa con i se” per proseguire descrivendo una realtà parallela in cui Roberto Fico ha trovato l’accordo col Partito Democratico per far partire un governo.

Va detto, anzitutto, che se la storia non si fa con i se, il futuro è tutto da scrivere e la legislatura è lunga. Non crediamo accadrà, come più volte spiegato, ma siccome è bene non dare mai nulla per scontato se dovesse cadere il governo Lega-M5s in questa legislatura quell’ipotesi tornerebbe un’opzione. Eccoci quindi a commentarla.

Senza fare l’esegesi del testo di Cancellato, ci limiteremo a sottolineare l’errore che commettono molti di coloro che ipotizzano questo scenario. Che non sono pochi: il mitico Andrea Scanzi, per dire, definiva, in buona compagni, “disadattati neuronali” — cedendo all’uso dei problemi clinici e delle malattie come insulti, tipico dei criptofascisti inconsapevoli — chi spiegava che dato l’esito del voto del 4 marzo l’unico punto di caduta possibile della legislatura fosse un governo Di Maio — Salvini.

Ebbene, l’errore che si commette è figlio, probabilmente, dell’effetto Dunning-Kruger: dopo 5 anni di legislatura i commentatori, non avendo mai capito nulla del Movimento 5 Stelle, essendosi accorti dell’esistenza di Gianroberto Casaleggio con giusto un pochino di ritardo (quando è morto), prima di rendersi conto del ruolo di suo figlio Davide — a parte, va sottolineato, proprio Francesco Cancellato — sono convinti di aver domato la bestia e aver capito come funziona il partito di Di Maio.


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Lo schema che propinano è il seguente: Fico è il compagno istituzionale, Di Battista è il compagno combattivo, Di Maio è il moderato governativo; basta dare un po’ di coraggio ai primi et voilà servito l’accordo col Partito Democratico.

Ecco: nulla di tutto ciò è vero. Ci fu solo un momento in cui Fico avrebbe potuto contare qualcosa, e fu a fine 2016 quando sembrava aver radunato attorno a sé una truppa pronta a disarcionare Di Maio. L’abbiamo raccontato nel capitolo La Rivolta del nostro libro Supernova. Purtroppo, le truppe di Fico erano meno convinte di lui e chi ci raccontò quella storia, Laura Castelli, si è rivelata addirittura un’infiltrata doppiogiochista del “nemico” Di Maio.

Ma tralasciando queste piccinerie di piccoli uomini e piccole donne, tutte le analisi tralasciano un fattore determinante: nessuno di queste persone decide nulla. Ogni singola decisione strategica è sottoposta al veto di Davide Casaleggio. Scoccia doversi ripetere, ma sarà necessario ribadirlo ogni volta che si parlerà di questi argomenti. Lo Statuto del Movimento delega la comunicazione e la gestione di ogni processo democratico interno all’Associazione Rousseau, che opera anche come tesoreria-ombra del partito, raccogliendo le donazioni dei sostenitori e il finanziamento dei Parlamentari.

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L’accordo con la Lega di Salvini è funzionale al mantenimento di questi equilibri e al soddisfacimento di tutte le aspirazioni dei loro stakeholder: gli ambiziosi parlamentari di seconda nomina hanno tutti, o quasi, ottenuto prestigiosi incarichi istituzionali; la seconda “infornata” di parlamentari di prima nomina sono messi in coda per il prossimo giro; Casaleggio mantiene il controllo sulla macchina e accede a un’incredibile rete di relazioni utili alle sue attività commerciali e di lobbing.

Nessuno di questi attori ha interesse a costruire equilibri diversi da quelli attuali. La Lega garantisce disinteresse nel ciclopico conflitto di interesse di Casaleggio, in cambio il Movimento garantisce benevolenza nei confronti del condono fiscale, dei 49 milioni rubati dalla Lega per il bene superiore di governare 5 anni il Paese e, l’anno prossimo forse il Continente.

Queste persone non rinunceranno mai a queste incredibili condizioni favore. L’ipotesi di accordo col PD non è mai esistita dopo il voto: è stato solo il modo in cui Di Maio e Casaleggio hanno preparato i loro fan, vendendo l’operazione come “inevitabile” (per i gonzi che credevano all’alternativa).

Se esisterà in futuro sarà perché qualcosa in questi equilibri, per ora solidissimi, si sarà rotto, non certo per qualcosa che minimamente si avvicini all’interesse collettivo.


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Il veto di Davide Casaleggio all’accordo con i Verdi europei

La bugia del presidente di Rousseau sul suo potere nel Movimento ha le gambe corte

Ieri raccontavo come dopo le prossime elezioni europee il Movimento 5 Stelle dovrà trovare un accordo con il partito di Salvini e Le Pen per sopravvivere politicamente, date le regole del Parlamento Europeo che subordinano l’erogazione di fondi e il diritto di parola in assemblea all’adesione dei parlamentari a un gruppo politico.

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Concludevo sottolineando come un’eventuale intesa coi Verdi fosse difficile per l’indisponibilità del partito presieduto da Monica Frassoni e Philippe Lamberts.

Proprio Lambert, sempre ieri, rilascia un’intervista al Foglio in cui, tra le altre cose, rivela:

“[Uno dei motivi di divergenza] ha a che fare con la presenza di Davide Casaleggio, il suo ruolo non chiaro, priva di qualsiasi legittimazione elettorale e certamente incompatibile con una struttura democratica quale dovrebbe essere quella di un partito politico”

e racconta che

“Gli ultimi contatti ufficiali li ebbi con David Borrelli, quando era ancora il leader europeo del M5s, ormai più di due anni fa. Ricordo che nel 2014 la possibilità di costituire un’alleanza tra noi e i grillini nel Parlamento di Strasburgo fu valutata con serietà. Ma poi tutto s’interruppe perché, ci fu detto, era Casaleggio a non volere un’intesa del genere. Per noi, una simile dinamica è inaccettabile: chi è davvero Casaleggio?”

Si riferisce proprio a Davide Casaleggio: fu lui infatti, essendo madrelingua inglese, a condurre le trattative con Farage insieme a David Borrelli e Beppe Grillo nel 2014. Ci fu, come conferma Lamberts, un contatto anche coi Verdi: il contatto, verosimilmente, avvenne per tramite di Monica Frassoni che con Grillo aveva un rapporto d’amicizia da parecchi anni. Oggi sappiamo che fu Casaleggio a rifiutare l’intesa.

Ci fu un secondo tentativo nel 2016 prima, durante, o dopo il tentativo di accordo con l’ALDE?

Se ancora ce ne fosse bisogno, tutto questo dimostra che Casaleggio mente quando sostiene di non occuparsi di politica e di avere solo un ruolo di attivista del Movimento. È invece, attraverso la sua Associazione Rousseau, titolare di un potere non codificato negli statuti, se non dove si riconosce proprio all’associazione il ruolo di amministratore dei processi democratici e della comunicazione del partito. Con il non irrilevante dettaglio che Casaleggio è inamovibile dalla presidenza dell’associazione, al contrario delle cariche politiche, delle candidature e degli organi di garanzia del Movimento.

Dimostra anche che il suo ruolo è oggetto di interesse e perplessità anche all’estero. Una circostanza interessante che andrà indagata con attenzione.

Elezioni europee, la posta in gioco per il Movimento 5 Stelle

 

Alle elezioni europee del 23 maggio 2019 non parteciperà il Regno Unito: salvo incredibili colpi di scena, infatti, Londra uscirà dall’Unione il prossimo marzo e perderà quindi i seggi al Parlamento Europeo che verrà rinnovato.

Che c’entra il Movimento? C’entra, ma va fatto un passo indietro e spiegato come funzionano i gruppi parlamentari a Bruxelles.

https://www.spreaker.com/user/marcocanestrari/elezioni-europee-la-posta-in-gioco-per-i

I deputati europei possono iscriversi a un gruppo transanzionale di partiti che condividono gli stessi obiettivi oppure al gruppo cosiddetto dei “non iscritti”. Secondo i regolamenti, per formare un gruppo servono almeno 25 parlamentari di sette paesi diversi (la regola dice 1/4 dei paesi membri, il numero non cambierà anche se ci sarà un paese in meno). I deputati non iscritti hanno fortissime limitazioni in termini economici (niente soldi per i collaboratori) e di azione politica (accesso limitato ai dossier, a determinati ruoli, alle commissioni e minor tempo di parola in assemblea plenaria). Questo è il motivo per cui, quattro anni fa, il Movimento cercò e trovò un accordo con lo UKIP di Nigel Farage per la formazione del “Gruppo per la libertà e la democrazia diretta”.

Tra dicembre 2016 e gennaio 2017 David Borrelli, allora principale esponente del M5s al Parlamento Europeo, trattò l’ingresso del partito nell’Alde; sarebbe stato un fatto storico per molti motivi: sarebbero passati dal gruppo meno europeista a quello più europeista del Continente. Pur tra molti mugugni, la base approvò l’operazione che, però, venne fatta saltare proprio dall’Alde.

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Forse, quell’operazione guardava proprio al problema che si presenterà il prossimo anno: orfano dello UKIP, il M5s non è sicuro di trovare 25 parlamentari di sette paesi diversi per formare un gruppo e ottenere quindi soldi e potere.

Le alternative plausibili sembrano, allo stato, essere due: l’ingresso in “Europa delle Nazioni e della Libertà”, il gruppo di Salvini e di Marine Le Pen, o un accordo simile a quello che fece nel 2009 il Partito Democratico che non entrò nel Partito Socialista Europeo dando però vita al gruppo dei “Socialisti e Democratici”.

Questo preluderebbe, evidentemente, a un accordo di governo continentale col Partito Popolare, che si prevede più spostato a destra sulle posizioni di Orbàn. A suffragio di questa ipotesi, il ripensamento del Movimento proprio sulle sanzioni al premier Ungherese: se i parlamentari europei avevano votato a favore, gli stellati italiani hanno impegnato il governo in senso contrario in sede di Consiglio Europeo.

Altre opzioni (ad esempio un accordo coi Verdi) sembra essere non praticabile sia per l’indisponibilità degli ipotetici alleati sia, e soprattutto, perché difficilmente si vorranno mettere a rischio gli equilibri domestici per trovarne di nuovi a Bruxelles.


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