Sabato scorso Carlo Calenda, ex ministro dello Sviluppo Economico, è incappato in un incidente social sul tema dei videogiochi.
In sintesi, ha fatto sapere che in casa sua i “giochi elettronici” non entrano perché sono “una delle cause dell’incapacità di leggere, giocare e sviluppare il ragionamento“. Vi suggerisco caldamente di leggere, in merito, l’articolo di Nicolò Carboni che, tra le altre cose, ricorda che la percezione di Calenda sia stata smentita ormai da decenni. Al contrario, “spesso il gaming permette la comprensione e la costruzione di rapporti personali complessi, oltre all’allenamento delle funzioni logiche inconsce e superiori. Insomma, si potrebbero passare ore a smentire Calenda citando paper, studi, ricerche, videogiochi più o meno educativi”.
Tralasciando il fatto che Calenda squalifichi il suo passato lavoro di ministro dello Sviluppo, dimostrando di non conoscere uno dei settori industriali più importanti della nostra epoca, soprattutto cade in uno dei bias cognitivi che, da mesi e giustamente, denuncia come causa di buona parte dei problemi della nostra epoca.
Il bias di Calenda è quello esperienziale: si è formato un’opinione su un tema incredibilmente complesso sulla base della propria esperienza – verosimilmente datata – e a quella dei suoi più stretti conoscenti. Peggio ancora, cerca di rafforzare pubblicamente la sua tesi tramite commenti generici di sconosciuti su Twitter.
Confonde l’intero settore dell’industria videoludica con le sue (rare) degenerazioni, di cui peraltro l’industria stessa è a conoscenza tanto che ormai è prassi che i produttori limitino autonomamente il numero di ore giocabili. È come se avesse sostenuto che in casa sua il Chianti non entra perché il vino è una delle cause principali dell’alcolismo. O che sfrecciare con una Maserati a 200 all’ora sulla provinciale è rischioso quanto girare in pista con una 500.
È interessante, e preoccupante, che capiti proprio a Calenda perché, come dicevo, sul problema dell’analfabetismo funzionale e i bias cognitivi ha costruito buona parte della sua “narrazione” recente e parte dell’analisi e delle tesi del suo libro, Orizzonti Selvaggi.
L’infortunio di Calenda ci segnala, pure, quanto sia facile e pericoloso trovare la propria “social comfort zone“: l’effetto Dunning-Kruger evidentemente, si applica anche all’utilizzo dei social. Quando pensi di padroneggiare il mezzo e di capire l’umore del tuo pubblico è il momento di stare più attenti perché sei, probabilmente, nel picco della curva.
Sarà interessante capire se Calenda tornerà sul tema dopo essersi documentato, magari scusandosi per la baggianata, o se dobbiamo rassegnarci tutti a convivere coi nostri limiti e soprattutto con quelli di coloro che si propongono di aiutarci a superarli.