Nei giorni scorsi ho conversato con alcuni amici, per lo più militanti del Partito Democratico, che si interrogavano sulla carriera politica di Di Maio. La domanda più gettonata è: come ha fatto?
Come ha fatto a diventare ministro e vicepremier a 31 anni, a ribaltare il suo partito, a prenderlo in mano e condurlo oltre il 30%. Come fa a tenerlo insieme, così apparentemente compatto, al governo? Come ha messo a tacere, anzi portandoli dalla sua parte, i suoi avversari interni, perfino Beppe Grillo?
Domande lecite, opportune, che meritano una risposta.
Di Maio non ha imposto una visione politica, non ha convinto gli avversari interni, non ribaltato il partito. Di Maio non è un animale politico: ha solo capito, in questo sì è stato bravo, quali fossero le esigenze dei suoi compagni di viaggio e ha dato a ciascuno quel che voleva.
Nel 2013 il Movimento 5 Stelle conquista il 25% dei voti, elegge 160 parlamentari. Molti non si conoscono nemmeno tra loro, non c’è una vera strategia per affrontare il successo oltre le previsioni. Per alcune settimane il Movimento vive di rendita: la sconfitta di Bersani manda manda nel panico i democratici. Quando s’insediano le Camere nessuno sa come si sarebbero comportati i “grillini” così, per non sbagliare, gli si concede la vicepresidenza della Camera dei Deputati. Di Maio è scaltro: studia i regolamenti e si fa assegnare l’incarico dal suo partito, che per selezionare le cariche istituzionali, all’epoca, sottoponeva i candidati alla “graticola”, una sorta di interrogazione per saggiarne le qualità. Nella desolazione di cervelli che era il gruppo parlamentare all’epoca, il parlamentare campano spicca. Preparato e “istituzionale”, mastica politica fin da piccolo (il padre è un ex dirigente del Movimento Sociale). Viene eletto.
Dalla vicepresidenza della Camera Di Maio ha gioco facile: può avere un suo staff personale, può premiare e punire i suoi colleghi agevolando o bloccando proposte ed emendamenti. Comincia a costruire la propria influenza nel partito.
Nel frattempo, non si risparmia nemmeno sul territorio: spende, nella legislatura, centinaia di migliaia di euro in “eventi sul territorio”, finanziamento pubblico al (proprio personale) partito, per pagare incontri con gli attivisti.
Sempre attento, in equilibrio tra parole d’ordine e ruolo istituzionale, a non contraddire i capi: Grillo e Casaleggio.
Il quale Casaleggio, a ridosso delle elezioni europee del 2014, si ammala per la seconda volta e perde il polso sul partito. Inizia la scalata.
A Milano, il figlio comincia ad occuparsi sempre più spesso del partito, all’insaputa di tutti salvo i fedelissimi, in particolare Pietro Dettori.
A Roma, Casalino diventa capo della comunicazione sia alla Camera che al Senato.
Di Maio fa la sua mossa: manda avanti un collega (non si espone mai in prima persona) e fa proporre ai “garanti” la costituzione del Direttorio. Inizialmente, la proposta è respinta: in Supernova documentiamo un ferocissimo scambio via email tra i fondatori e lo sherpa del vicepresidente della Camera. Ma è solo questione di tempo: alla fine, il direttorio si fa. Ne fanno parte Di Maio, Di Battista, Fico, Sibilia e Ruocco. Due potenziali avversari, un’amica stretta di Grillo, il riferimento dei parlamentari complottisti (che all’epoca non sono pochi). In quell’organo, che diventa di fatto la segreteria del Partito, Di Maio consolida il suo potere e la sua influenza: gli altri parlamentari escono dai radar dei giornali, che si concentrano sui cinque.
Quell’esperienza dura due anni, fino al 2016, quando diventa chiaro che la leadership politica del partito è, ormai, di Di Maio.
Casaleggio muore ad aprile di quell’anno: era l’unico vero ostacolo alla corsa del fuoricorso di Pomigliano. Alla festa del partito nel 2015 a Imola, infatti, Casaleggio aveva urlato nel microfono con le poche forze che gli rimanevano: “non ci faremo imporre il candidato premier dalle televisioni”. Il riferimento era chiarissimo. E infatti, due giorni dopo il funerale del fondatore, Luigi Di Maio è in TV, in prima serata, al TG1: “il candidato lo sceglieremo in rete, se il Movimento vorrà io non mi tirerò indietro”. È fatta.
In quel momento è già tutto deciso: Di Maio e Davide Casaleggio, il figlio del defunto fondatore, hanno già stretto l’accordo. Davide continuerà a gestire i dati e i soldi delle donazioni, centinaia di migliaia di euro all’anno (oggi, alcuni milioni a legislatura), Luigi sarà il capo. Garante del patto: Rocco Casalino, che mantiene il controllo sulla comunicazione, premiando e punendo i parlamentari ossia scegliendo chi va in tv, chi rilascia interviste.
Casalino diventa depositario di tutti gli sfoghi, le confidenze, le lamentele dei parlamentari. Anche della fronda che non ci sta: pochi parlamentari che vorrebbero una vera sfida ai vertici per la candidatura a premier. Vogliono Roberto Fico.
La Rivolta monta, viene riportata dai giornali. Ma dura poco: Di Maio sa di avere dalla sua Casaleggio, Casalino, la maggioranza del gruppo parlamentare e un nuovo Statuto nel cassetto. Nel 2017 Luca Lanzalone scrive, infatti, le nuove regole: l’associazione Rousseau di Casaleggio diventa di fatto la tesoreria del Movimento, controlla le donazioni e i processi democratici del partito; il capo politico non è più Grillo, ma viene eletto dalla base.
La votazione si svolge, ma contro Di Maio non c’è nessuno dei parlamentari di peso: né Di Battista né Fico si candidano. Di Maio diventa candidato premier, garantendo i parlamentari in uscita: tutti avranno la loro fetta di torta.
Oggi, i parlamentari di seconda nomina hanno quasi tutti un incarico istituzionale: chi presidente di commissione, chi sottosegretario. Perfino Laura Castelli, che è stata nostra fonte per Supernova: viceministro. Roberto Fico è presidente della Camera. Davide Casaleggio conserva il suo ruolo, inamovibile, la sua influenza, l’amministrazione dei soldi.