Nell’aprile di due anni fa rilasciai un’intervista a La Stampa in cui esprimevo, dopo la morte di Gianroberto Casaleggio, la mia opinione su quanto stesse accadendo nel Movimento 5 Stelle.
Due cose in particolare: primo, era in atto una guerra per il potere all’interno del partito, una scalata del clan di Di Maio sostenuta, dall’esterno, da Matteo Renzi che aveva appena concluso una simile operazione nel Partito Democratico. Secondo, dunque, che le carriere dei due erano gemelle.
Renzi, infatti, appena diventato Presidente del Consiglio, si scelse il suo avversario — Di Maio, all’epoca vice presidente della Camera — rendendolo credibile anche agli occhi dei compagni del M5s. I dettagli sono raccontati in Supernova, il libro che ho scritto insieme a Nicola Biondo, in libreria dal prossimo 10 maggio.
I fatti degli ultimi due anni si sono già incaricati di confermare quelle preoccupazioni: Di Maio ha scalato il partito, che ora controlla militarmente, proprio come Renzi controlla (ancora) militarmente il Partito Democratico.
Nel PD, il tentativo di deviare dalla linea dettata dall’ex segretario è stato soffocato nella culla. Nel M5s la linea, dopo aver cercato in ogni modo di andare al governo, la detta solo il capo politico ed è chiedere il ritorno alle urne subito. Perché?
Di Maio, Casaleggio e il M5s hanno, in questi anni, investito tutte le risorse su un unico obiettivo: Luigi Presidente del Consiglio. Mai è stata proposta un’alternativa da nessuno, nel partito. Per farlo, hanno fatto carta straccia di ogni regola: prima capo-ombra del Direttorio, poi capo politico, poi candidato presidente, poi le candidature scelte in prima persona con l’aiuto del suo comitato elettorale. È stata anche sedata la rivolta interna e mandato Roberto Fico in esilio alla Presidenza della Camera (un bell’esilio, per carità, il “metodo-Fini”).
Poi, arrivati al dunque, Di Maio ha fatto l’errore dello scommettitore scemo: puntare su ogni risultato possibile, l’unica mossa che, è certo, non ti fa vincere. Ha proposto di formare un governo alla Lega, sperando che Salvini mollasse Berlusconi. Niente. Poi, ha bussato alla porta del PD, sperando che Renzi se ne stesse buono buono in disparte. Nulla.
Ora Luigi è, come si suol dire, nella melma: sfumato Palazzo Chigi, coi sondaggi che cominciano a calare, è chiaro che voglia andare subito al voto: la certezza di ricandidatura per tutti, con una buona probabilità di essere rieletti, può passare ancora per pochi giorni nel gruppo parlamentare, così come far digerire agli attivisti la deroga alla norma sui due mandati (che impedirebbe al Clan di essere di nuovo nelle liste). Ma se sfuma anche il voto, non avrebbe centrato nessuno degli obiettivi. Nemmeno uno. La sua credibilità nel gruppo parlamentare e nel MoVimento sarebbe annullata e da quel momento tutto potrebbe accadere. Senza più una figura di riferimento, senza nessun nuovo leader possibile, è facile ipotizzare che molti — soprattutto tra i neo eletti — non rinunceranno facilmente a cinque anni di stipendio e benefit da parlamentare.